Che l’inferno sia un gargoyle?
Che l’inferno sia d’altro “nome”, che l’Aquinate non ebbe aria polmonare per disseminarne le potenzialità oniriche nell’uomo solo?
Che l’inferno sia “,” ; o che sia una punteggiatura sospesa, o temporaneamente esecutiva pronta per un nuovo nome da accostare, perciò innominabile?
Che l’inferno sia il paradiso del sottoscala post-mortem, quello trascurato, coerente con il meta-oscuro addio della luce, programmata equidistante all’occhio semichiuso?
Che l’inferno sia bianco o il bianco del nero, o l’errore intestinale di una bambola in movimento?
Che l’inferno sia un demone con un’insegna di criptica intra-consistenza?
Che l’inferno sia una filosofia che infilza la carne per sgrigire l’anatema del cancro?
Che l’inferno sia un escremento?
Che l’inferno sia il paradiso dei non-dei o che sia una forma caprina con lingua biforcuta e che, laggiù, il biforcuto sia termine suggerito dall’anti-Borges?
Che l’inferno sia l’Overlook Hotel dove l’attività sublime della vendetta dedica onori fantasmatici a fantasmagonie di contagio?
Che l’inferno sia discussione soliloquiale e che il soliloquio contraddica rumori esterni dentro quel non-luogo?
Che l’inferno sia un binomio umano di incubi letterari: quelli di King e di Me?
Che l’inferno sia elettricità racchiusa in bare scoperchiate? Le bare dei morti non riusciti?
Che l’inferno sia questo foglio?
Chiese Manganelli a Jack Torrance dentro l’Overlook Hotel, ormai chiuso: la neve continuò la filosofia muta, d’entrambi.
Amen