Era una domenica qualunque di tarda primavera. Dovevo consegnare l’articolo al giornale entro la mezzanotte e guardare la diretta stadio, a basso volume e in santa pace, evitando possibilmente la visione dei soliti spettacoli domenicali da orticaria. Se c’è una cosa che detesto è quel branco di imbecilli che salutano, muovendo la mano a ritmo incessante- che Dio li benedica, per la capacità che hanno – io non ho la stessa forza- quando il giornalista lancia il servizio dallo stadio. Li eliminerei volentieri senza pensarci su nemmeno un attimo, senza alcuna pietà e senza alcun rimorso.Non esiste un motivo che possa giustificare la mia idiosincrasia per questo genere di cose e non sono neanche il tipo di persona che va a scomodare la psicologia per conoscerne la causa.A cinquant’anni, quindici chili in più e il tempo che ti corre dietro mi guardo bene dal farlo.
La ragione delle cose spesso lascia il tempo che trova. Per quel che mi riguarda un giorno o l’altro forse saprò da dove nasce la mia insofferenza.
Per adesso sono certo che sarebbe cosa buona e giusta liberarsi da quegli idioti che usano le mani a sproposito. E’ la prima cosa che mi viene in mente ogni volta che la domenica guardo la diretta stadio. E’ un pensiero fisso, una forma di ossessione. Qualche tempo fa stavo per prendere a calci la loro faccia dentro lo schermo. Mi ha bloccato quel cocktail martini che stavo bevendo, era troppo buono per meritarsi la fine di un gin riscaldato.
E poi, tutto sommato, non sono una persona violenta, con istinti distruttivi e quant’altro.
O meglio, non credevo di esserlo fino a quella domenica di tarda primavera, fino a quando mi sono reso conto che nel folto gruppetto alle spalle del giornalista c’era anche mia moglie, Margherita.
Non posso permettermi di stabilire ciò che per gli altri è giusto o deve essere giusto, soprattutto quando “l’altro”è mia moglie.
Se per Margherita un’idiozia simile può essere legittima, va bene così: inorridisco, la bile mi attraversa tutto il corpo, ma lo accetto.
Ma il problema quel giorno era un altro.
Il fattaccio si stava consumando sotto i miei occhi nello stesso pomeriggio in cui mi aveva detto di non essere allo stadio, ma a casa di un amico di cui ignoro tuttora le generalità.
Amo immensamente Margherita e la domenica mi piace trascorrerla insieme, ma quella maledetta domenica di tarda primavera l’idea di restare solo non mi dispiaceva, mi serviva una buona dose di concentrazione per finire il pezzo per il giornale.
Come al solito mi ero seduto alla scrivania che guarda sul giardino e avevo acceso la televisione per la diretta stadio; a basso volume non mi distrae, mi fa compagnia.
Subito avevo iniziato a battere sulla tastiera, di tanto in tanto giravo lo sguardo distrattamente verso la televisione per poi riabbassarlo sul Pc.
D’improvviso, quando meno me lo aspettavo, quando ho riguardato lo schermo, ho sentito il sangue gelarmi: era appena finito il primo tempo del match, un gruppo di sconsiderati si era asserragliato dietro lo speaker inerme per il movimento nevrotico del saluto. E Margherita era tra di loro. Ho riconosciuto subito la sua chioma bionda e le mani affusolate che si muoveva dietro il mezzo busto. Tremavo. Ero in preda al panico, sconcertato, paralizzato dallo stupore. Deluso.
Non credevo ai miei occhi, Margherita lì? Ero di fronte al primo tradimento dopo vent’anni di matrimonio. Perché cos’è il tradimento se non l’incapacità di essere sinceri, la volontà di mentire?
Ebbene non ho mai considerato Margherita infedele tutte le volte in cui mi ha confessato le sue relazioni extraconiugali. Ho sempre riconosciuto con me stesso che quella lealtà andasse apprezzata, al di là delle fragilità che mi muoveva.
Ma le bugie no, quelle non le ho mai sopportate.
Ancora in preda ai brividi ho abbandonato l’articolo a metà, nonostante il rischio palpabile di essere scaraventato fuori dal giornale, mi sono lavato la faccia con l’illusione di far scomparire l’orrore dal mio volto e sono uscito da casa. Volevo precipitarmi allo stadio a qualunque costo, arrivare in tribuna stampa e prendere Margherita per i capelli con tutta la violenza immaginabile. Stavo per entrare in auto quando ho sentito la sua voce alla finestra.
Carlo ma dove vai non dovevi finire il pezzo per stasera? Mi sono dato due ceffoni in faccia mentre lei mi osservava scossa, ho riposto farfugliando Ma non eri allo stadio, alle spalle del giornalista, in mezzo a quella massa di cre…tini a salutare? Ancora tremavo.
Ma ti ha dato di volta il cervello? Sono in camera mia da ore.
Sentivo effettivamente che il mio cervello era sempre più distante dal centro di gravità.
In un tono dimesso, mortificato, ho aggiunto Ma non dovevi essere da un amico?
Nello stesso momento in cui formulavo la domanda mi sono reso conto che Margherita qualche ora prima mi aveva detto che l’appuntamento era stato spostato in serata.
Ho tirato un sospiro di sollievo. Non mi aveva mentito. Dopo vent’anni di matrimonio ogni cosa era ancora al proprio posto.
In quella domenica di tarda primavera, più tardi, Margherita avrebbe incontrato un amico. Ma questo non aveva importanza.
Di importante c’era il fatto che non fosse tra quel branco di idioti che la domenica salutano il nulla dagli spalti. Durante la diretta stadio.