Venti anni fa aveva inizio quello che è stato l’assedio più lungo nella storia bellica moderna. Era il 5 aprile 1992, quando a Sarajevo furono uccise dai cecchini serbi, Suada Dilberovic e Olga Sucic, due giovani donne che manifestavano per la pace sul ponte che oggi porta il loro nome. Nello stesso giorno, i paramilitari serbi attaccarono l’Accademia di Polizia di Sarajevo. Il giorno dopo la Comunità Europea e gli Usa riconobbero l’indipendenza della Bosnia dalla Jugoslavia. Quel 6 aprile divenne formalmente l’inizio sia dell’assedio di Sarajevo sia della guerra in Bosnia e da quella data inoltre, l’assedio si protrasse fino al 29 febbraio 1996. Tale guerra, vide scontarsi le forze del governo bosniaco che aveva dichiarato l’indipendenza dalla Jugoslavia, contro l’Armata Popolare Jugoslava (JNA) e le forze serbo-bosniache (VRS), che miravano a distruggere il neo-indipendente stato della Bosnia-Erzegovina al fine di creare la Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina.
Ciò che ha prodotto la guerra è solo odio, morte, distruzione, stragi di innocenti: 11.541 vittime ed oltre 50.000 feriti e mutilati dalle granate che sono piovute dal cielo. Le Nazioni Unite attuarono un ponte aereo per gli aiuti umanitari dispiegando 24 mila caschi blu in tutta la Bosnia, ma la gente nella capitale e nel resto del Paese continuò a morire per tre anni e mezzo. Nel corso della guerra gli assedianti controllavano anche i convogli di aiuti umanitari, hanno bombardato scuole e ospedali, i cecchini non hanno esitato a sparare sui bambini e le granate hanno stroncato le vite dei civili intenti ad attraversare una strada, mentre prendevano un caffè e persino mentre seppellivano i morti. Insomma, ogni assembramento poteva tramutarsi in una strage come quella del 27 maggio 1992, quando un colpo di mortaio uccise 23 persone in fila per comprare il pane o come quella del mercato del 5 febbraio 1994 con 68 morti oppure ancora, come quella del 28 agosto 1995 con 41 morti, che provocò la reazione della Nato e gli attacchi aerei contro le postazioni di artiglieria serbe.
Nell’estate del 1993 gli abitanti di Sarajevo riuscirono a scavare un tunnel sotto l’aeroporto della città. L’ingresso della galleria, scavata dai bosniaci musulmani, si trova al civico 34 di Donji Kotorac, una stradina di campagna nel quartiere di Butmir, alle pendici del monte Igman di fronte alla pista dell’aeroporto di Sarajevo. I muri sono ancora scrostati e bucherellati dai colpi di granata, d’altronde come molte case della capitale bosniaca a distanza di 20 anni dalla fine del sanguinoso conflitto. Negli anni della guerra, il tunnel veniva utilizzato per trasportare feriti, per portare viveri alle persone ma anche per fuggire definitivamente dalla città ed ovviamente, gli accessi della galleria erano per tutti un mistero. Ora, la famiglia che abitava la casa di Butmir e che dovette abbandonarla quando gli ingegneri dell’Armja decisero di costruire proprio lì una delle due uscite del tunnel mentre l’altra fu aperta nel quartiere di Dobrinja, sul lato della città assediata, sta tentando di recuperare una parte della galleria che in certe zone è inagibile e pericolante, per creare un piccolo museo della ‘memoria’ proprio all’imboccatura del cunicolo. Nei due anni di operatività, si conta che il tunnel abbia salvato circa 300.000 vite umane.
Sarajevo ha commemorato le vittime della guerra con un concerto tenutosi il 6 aprile scorso davanti a 11.541 sedie vuote, ricordando come ogni anno anche un altro 6 aprile, ovvero quello del 1945, quando i partigiani di Tito liberarono la città dall’occupazione nazista.