I modelli culturali dell’Europa occidentale sono stati costantemente influenzati da una più o meno latente cultura cristiana, che in alcuni determinati periodi storici, com’è risaputo, ha teso ad affermarsi in maniera piuttosto pronunciata, fino ad oscurare qualsivoglia retaggio di natura divergente.
Uno dei suddetti periodi, nel quale è collocata la personalità di cui intendiamo parlarvi oggi, è quello del cosiddetto Barocco letterario, coincidente grosso modo con il periodo a cavallo tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta del XVII secolo (per quanto riguarda gli esordi).
Durante tale periodo, i gesuiti si impegnarono fortemente nel controllo di ogni forma di comunicazione culturale, servendosi di tutte le arti di persuasione a loro disposizione, con il fine di raggiungere il più vasto pubblico possibile, in special modo le classi meno istruite della popolazione, dove per logica consuetudine i dettami dogmatici della Chiesa Romana potevano attecchire facilmente.
Le mire di espansione “mediatica” dei gesuiti, tuttavia, non si limitavano ad una generica azione evangelizzatrice: essi desideravano costruire una vera e propria “cultura gesuitica”.
Il merito di autori quali Emanuele Tesauro e Giacomo Lubrano, sono da rintracciare nel tempismo con il quale esse seppero assumere la guida di una cultura come quella barocca, in delicata fase di riflessione ed assestamento: sul piano della letteratura, i gesuiti seppero occupare gran parte degli spazi lasciati vacanti dalla cultura laica.
La personalità letteraria che si distinse maggiormente non soltanto tra i gesuiti, ma all’interno degli ambienti culturali della penisola, fu quella di Daniello Bartoli (1608-1685), nelle cui opere alcuni critici ravvisano addirittura i migliori esiti della poesia italiana secentesca.
Già tramontarono que’ Secoli d’oro, quando le corone reali si mettevano all’incanto, e si pesavano le teste di chi vi pretendeva: quando le fasce de’ diademi reali servivano non a legare, come in molti avvenne, il cervello de’ pazzi, ma ad onorare il merito e coronare il senno de’ Savj.
(Daniello Bartoli, Dell’uomo di lettere difeso e emendato, Giacinto Marietti, Torino, 1834)
Nato a Ferrara da una colta famiglia borghese, entrò nel collegio gesuitico all’età di quindici anni, nutrendo la speranza di divenire un giorno missionario: i suoi precettori, tuttavia, avevano progetti diversi per lui. Gli fu dato infatti l’incarico di insegnante nella capitale, presso il Collegio romano, ove pure redasse l’Istoria della Compagnia di Gesù, uscita tra il 1650 e il 1673, divisa in sezioni appartenenti a differenti aree geografiche del globo (L’Asia, La Cina, L’Inghilterra, L’Italia), con il primiero scopo di evidenziare le imprese dei missionari nei paesi più remoti.
Rivelando le sue doti di fine narratore, egli fu in grado di evocare con rara maestria situazioni in cui aveva sempre sognato di trovarsi, eppure mai personalmente sperimentate. Si notano anche la sua grande curiosità nei confronti delle usanze e culture diverse, nonché una non comune predisposizione a studiarle e tentare di comprenderle (e, chissà, forse accettarle).
A questa, come era facile aspettarsi, Bartali affiancò anche numerose altre opere minori di devozione e riflessione morale, nelle quali traspare la classica predisposizione gesuitica alla disciplina scolastica, la quale, seppur colpevole di piegare alcuni concetti cruciali del sapere alla religione, contribuì almeno alla diffusione di un minimo livello di scolarizzazione presso i ceti meno abbienti.
Per finire, anche la prosa di Bartoli si rivelò costruita sul sottile filo che vedeva incrociare la precisione sintetica della prosa scientifica con la tendenza tutta barocca all’artificio: il risultato è un testo armonioso, in cui ogni oggetto non è mai nominato per se stesso, ma sempre in funzione di un’irrefrenabile ed innegabile verità al contempo tangibile e nascosta allo sguardo e alla ragione umani, quella della provvidenza di Dio.