Non è stata la visione del tronco di Stephanie, che ricordava da vicino un relitto di quercia dopo un devastante temporale, a smuovermi di commozione lo stomaco, ma la straordinaria sensazione di paura e di ignoto che ho avuto vedendo gli uomini della Polizei, le loro giacche brune con il cravattino nero, le splendide auto bianco verdi con le sirene azzurre nella notte. Non sanno quanto amore mi hanno dato, nei calci e nei pugni che mi hanno sfondato il naso e i denti.
Mi ero illuso, quando per un attimo avevo davvero creduto anch’io di poter esistere, vivo per una volta soltanto del mio sangue e della mia carne, oltre che nella traccia lasciata sul pavimento da altre membra.
In questi giorni furiosi di azione e di arte, ho predato respiri. Di altri corpi. Peccato solo aver lasciato il lavoro a metà, insieme al mio coltello da caccia. Ben pochi potranno spiegarvi la sensazione sublime del creare la morte.
Uccidere cinque donne in un mese, senza più il tempo di completare l’opera è il dolore, l’unico, che mi porterò al chiuso di una cella.
L’unico modo per scoprire l’arcano racconto celato nel gemito di ogni donna mentre sta andando via è riflettere il proprio volto, contro la lama di venti centimetri, impastata di sangue rappreso, con il manico d’osso grigio, che nessun inquirente potrà trovare.
Quel coltello che ha colto il mistero e la bellezza racchiusi nelle viscere è come la mappa di un tesoro, come un lascito. Chi lo troverà, se ne sarà degno, se ne farà guidare la mano, per tornare a colpire, facendo rivivere il mio sogno di morte e la purezza di un giglio di Francia in terra tedesca.