Rileggendo della quasi recente manifestazione “Se non ora, quando?” che lo scorso anno ha visto migliaia di donne in piazza a rivendicare la giustezza di una democrazia paritaria e non discriminante, non ho potuto fare a meno di pensare che parlare del ruolo della donna, del suo status sociale, politico e (perché no?) letterario, non può prescindere da una considerazione delle problematiche che da sempre ne hanno accompagnato la storia. La natura di tali problematiche va ricondotta ad una cultura profondamente maschilista, che parte dalle radici del suo essere.
Non mi meraviglia il fatto che non solo, purtroppo, nella società (contemporanea e non) si assista a una forma di razzismo, di esclusione nei confronti delle donne, ma anche nell’arte, nella letteratura. Riflettendo sulla figura femminile, le reminiscenze letterarie mi riportano continuamente a degli stereotipi: la donna da ammirare per la sua bellezza, da accusare per i suoi tradimenti, da immortalare nella sua fissità casalinga.
Donna che è icona, adultera, madre, dunque.
Ma la storia non è stata solo scenario di ingiustizie, è stata anche scenario di protagoniste indiscusse le quali, proprio attraverso la letteratura, hanno smosso le acque. Jane Austen sconvolse le convinzioni comuni di un’Inghilterra in cui era addirittura sconveniente che una donna scrivesse altro se non una semplice lettera. In una società nella quale unico fine per una donna era il matrimonio, ottenerlo ad ogni costo, l’esistenza femminile ne risultava degradata. La scrittrice inglese denunciò i vincoli invisibili ma opprimenti che, per senso comune, portavano a considerare come un peso le donne nubili. E lo fece non sposandosi mai, e facendo della scrittura il suo mestiere.
Betty Friedan, teorica americana del movimento femminista negli anni Sessanta e Settanta, affermò:
“Non possiamo più ignorare quella voce interiore che parla nelle donne e dice: Voglio qualcosa di più del marito, dei figli e della casa.”
La sua Mistica della femminilità nacque come un saggio ma fu ben presto altoparlante di un malessere diffuso tra moltissime donne, tutte alla ricerca della propria identità. Il momento era critico: l’insoddisfazione delle donne, rinchiuse nell’ottica della mistica, era sfociata in disagi profondi, dall’alcolismo agli psicofarmaci alle relazioni extra-coniugali; la Friedan intavolò un processo, si schierò senza esitazioni contro i dirigenti di società, i direttori dei giornali, i presidi, gli educatori. L’eco del suo libro contribuì non poco alle rivendicazioni, quelle del 1968, che poco dopo la pubblicazione avrebbero segnato la storia americana.
Donna che è femminista, anche.
E anticonformista.
Una donna che osa.
Proprio come Una donna di Sibilla Aleramo, impegnata non solo nella scrittura ma anche nella costituzione di movimenti a favore delle donne stesse. La necessità che si creasse una coscienza storica, che si verificasse una liberazione personale, il bisogno di autodeterminazione e di dare espressione alla propria esistenza divenne la sua esigenza preponderante. Modernità e impudenza decretarono il successo del suo romanzo e della scrittrice stessa.
Mi piace pensare alla cosiddetta “letteratura rosa” non come quella di romanzetti su storie d’amore più o meno realizzate, o su passioni per i diamanti e per la cioccolata, ma piuttosto come quella delle sudate carte da cui è partita la rivoluzione, di queste e di tante altre donne ancora.