Un libro divertente che parla di camorra.
Ma davvero si può scrivere un libro divertente sulla camorra? Forse non si può, anche Pino Imperatore era dubbioso. Insomma il Sistema non si può prendere in giro, non si può ridere di una organizzazione che miete soldi e sangue, che consuma, prende, distrugge, comanda, sporca. Però c’è da chiedersi: perché non si può? In effetti prendere in giro, ironizzare, mostrare la faccia meno autorevole non significa dissacrare? Non vuole forse dire togliere il velo sacrale, l’aura mistica a qualcosa che tali qualità non possiede?
“Benvenuti in casa Esposito” è la storia tragicomica del figlio di un boss morto ammazzato, un inetto maldestro e goffo, che vorrebbe a tutti i costi diventare una figura di spicco del clan che fu del genitore, il temuto Gennaro Esposito. Ma “o’ pullastro” non si cuoce mai a puntino, sempre o crudo o troppo cotto. La similitudine zoofila è, nel gergo del clan, il modo di comunicare a Tonino, il nostro non-eroe, che ha sbagliato e che per lui saranno guai.
Il nuovo boss, De Luca, gli passa un vitalizio col quale provvedere egregiamente alla moglie Patrizia, donna procace, al figlio, mangiatore inarrestabile, alla figlia, voce del cambiamento che ha un poster di Giancarlo Siani in camera, alla mamma Manuela, donna colta e, soprattutto, non napoletana, ai suoceri versione matrimoniale di Stanlio ed Onlio, alla governante Olga. Ma Tonino non ci sta.
Insieme al fidato Enzuccio, Tonino tenta in ogni modo di guadagnarsi un posto nell’Olimpo dei guappi. I risultati delle loro gesta li condurranno, non solo metaforicamente, tra quintali di cacca. Sullo sfondo la città, anzi il quartiere: la Sanità, ovvero la periferia che si trova al centro della città come in nessun altro posto al mondo (come sostiene opportunamente un altro napoletano, Francesco Durante, prima per nascita e poi per ritorno, come Imperatore).
Dei santi e dei morti i napoletani fanno quasi dei familiari, primo fra tutti nella famiglia Esposito San Vicente Ferrer, o Munacone, pare quasi di vederlo a tavola con loro, magari proprio alla cena di Capodanno con cui si apre il libro. Santi e chiese che gli appartenenti all’associazione di cui non si può fare il nome ( la camorra non esiste, i camorristi lo ripetono in continuazione ), frequentano senza il minimo imbarazzo. I più devoti anzi sono proprio coloro che nel confessionale dovrebbero prendere il domicilio. Piccola parentesi a parte gli incubi che angosciano Tonino, a dir poco esilaranti.
Pino Imperatore, al suo romanzo d’esordio, non si può dire non dimostri coraggio. Il politically correct imperante avrebbe forse dovuto sconsigliargli di intraprendere un progetto come questo: ridere del cancro della società. Invece la lettura è piacevole, l’uso di due registri linguistici (italiano per la narrazione e napoletano per i dialoghi) è convincente, la storia originale. I personaggi sono in un certo senso delle macchiette ed una certa dose di folclore è innegabile, sarebbe stato difficile però rinunciarvi. La speranza poi è una cosa di cui essere grati sempre, e Imperatore ci dà la speranza che non tutti gli uomini nati in una condizione socio-familiare di quel genere possano evolversi in esseri abbietti tanto quanto coloro che li hanno generati, che ci sia spazio per tutti nel mondo di coloro che a quel modo di vivere voltano le spalle per un’intrinseca incapacità al male.
Non ci sono cose di cui non si può parlare, cose di cui non è lecito farsi beffe, a maggior ragione se l’autorevolezza quelle “cose” se la sono presa con la minaccia. Ed io ho riso scompostamente, quando in metropolitana ho cominciato la lettura, e devo aver fatto pensare a parecchie persone di non avere tutte le rotelle a posto. Se però qualcuno ha sbirciato il titolo del libro ed ha deciso di comprarlo ne sono lieta. Avrà di certo modo di “crepare dal ridere”.