Un uomo partiva,
partiva solo,
camminava nel freddo,
camminava nel vento,
andava alla Grande Montagna.
Nella neve egli vide qualcosa,
non era una lepre,
non era una pernice,
qualche cosa di freddo.
Delle mani che uscivano dalla neve,
dei piedi che uscivano dalla neve;
le mani erano rosicchiate dalle volpi,
i piedi erano rosicchiati dai lupi.
Il padre guardò,
guardò senza parlare.
Spazzò la neve dai vestiti,
soffiò sugli occhi,
soffiò sulla bocca,
appoggiò il suo cuore,
il suo cuore contra all’altro cuore.
Ma il figlio rimase freddo,
rimase duro come una pietra,
immobile come il ghiaccio,
e per tre notti,
il padre non pensò più,
perdette il cammino,
dimenticò la strada,
non aveva più luce,
più luce nella testa:
Ora il padre canta,
canta sotto la tenda,
canta con gli Eschimesi,
e tutti insieme cantano,
cantano per il figlio.
“I loro miti e i loro canti, sono, generalmente, semplici ed infantili: una gente che lotta ogni ora contro forze strapotenti non può indulgere alla retorica e alla verbosità di lunghe e complicate descrizioni. Basta dire l’indispensabile, fissare le immagini, illustrare chiaramente i concetti: in modo semplice, come semplice è la psicologia deli Eschimesi che si possono accostare, per la loro bontà, a un popolo di fanciulli”.
Silvio Zavatti (direttore dell’ “Istituto Geografico Polare”)
Basterebbe questa pulitissima esplicazione per comprendere, apprezzare e gustare la raccolta di “poesie” e miti e canti che Zavatti, ma soprattutto il grande esploratore Knud Rasmussen, hanno faticosamente e meravigliosamente messo assieme svolgendo il proprio lavoro. Gli eschimesi si presentano come un popolo estremamente mite, solitario, impegnato in nulla se non nella lotta per non perdere la vita, per procreare e mandare avanti la propria stirpe, queste osservazioni estremamente banali all’apparenza non sono altro che la farcitura reale della loro esistenza, dei loro istinti, della loro cultura; la stragrande maggioranza di queste testimonianze artistiche viene tramandata oralmente e solo in alcune zone la scrittura si “degna” di essere adoperata per motivi tanto fini a sé stessi, di padre in figlio, i miti, le forze supreme, le morti e le ninna-nanna abbracciano le serate con danze e tamburi. Questa prosa ritmata, come la definisce Zavatti stesso, ben si presta infatti ai ritmi fissi scanditi dai tamburi e dalle voci, e nelle danze spiccano queste creazioni.
E’ quasi un secolo oramai che l’uomo bianco ha portato la propria “civiltà” debellando la meraviglia delle loro credenze, intristendo la poetica e naturale forza dei loro miti e dei loro spiriti, ed esautorando in buona parte la forza spirituale e sociale degli “sciamani”, uomini estremamene semplici, saggi, ed equilibrati, portando le nostre fandonie iconografiche e mentalmente masturbate…inoltre chiamandola civiltà…