Nei momenti difficili c’è chi prega, chi si affida alla sorte, chi parla e chi tace, poi c’è chi scrive. Chi per la prima volta, chi perché è abituato a farlo, chi mosso da un irremovibile “senso del fare”; tutti intenti a lasciare tracce di ciò che è e di ciò che potrebbe essere.
Oggi di queste parole è facile scorgerne traccia, e i motivi, seppur naturalmente validi, spesso s’imbattono in quegli ostacoli che si ergono dinanzi a chi ha poco chiari i propri obiettivi. Parlare di ciò che si conosce, o chiedersi ciò che si vorrebbe comprendere.
La moderna produzione letteraria è ormai giunta a livelli altissimi di sentenzialismo e qualunquismo; chiunque si sente in dovere di esprimere la propria opinione su qualsiasi argomento, se non in tv, almeno su carta. E qui non si parla di libertà, ma di maleducazione. La maleducazione letteraria di chi si finge galante quando impertinente, di chi si crede saggio quando impreparato.
La vera denuncia letteraria parte dal basso, e non parlo di ceti sociali. Il basso è quella sensazione di smarrimento e ingiustizia che l’osservatore acuto, più degli altri, percepisce e fa propria. La differenza tra un uomo e uno scrittore è questa, la totale mancanza di scelta dinanzi ad un male. Ciò che si conosce è la parola, ciò che si vuole comprendere è la sua posizione rispetto al male stesso.
Gli scritti più forti sono forse nati proprio in “quei” momenti difficili. Quelli che fanno a pugni con le ideologie, le battaglie e le censure. Dopotutto la letteratura altro non è che lo specchio dei nostri giorni, aldilà di ogni fantomatico desiderio. “L’arte che imita la vita” sosteneva qualcuno. Ecco che prendono forma e assumono senso Il Grande Gatsby (1925) degli Anni Ruggenti di F.S. Fitzgerald e Addio alle armi (1919) della sete di vita di Ernest Hemingway, in cui il realismo ricco di dramma e rivalsa si stanzia nelle pagine di uomini mai senza sogni.
Mi piace chiamarli gli uomini del si, coloro che demoliscono per poi ricostruire, coloro che osservano, consapevoli, ciò che non va, coloro che conoscono il basso, e lo fanno proprio. E forse l’aspetto più significativo di chi riesce a incanalare l’arte nel giusto binario è proprio la solidarietà espressa, sentita e dunque efficace. La paura che si trasforma in forza, la forza non del singolo ma della collettività. Questa mi piacerebbe chiamarla solidarietà narrativa.
Il Nobel peruviano Mario Vargas Llosa qualche anno fa disse “Se un effetto positivo questa crisi l’avrà, sarà sulla letteratura”, eppure ciò che finora ne è venuto fuori è solo un ennesimo mal riuscito tentativo di denuncia di un male che neanche si conosce. Forse c’è bisogno di tempo affinché un cambiamento si quieti e venga assimilato, forse c’è bisogno di eliminare l’idea della pura produzione letteraria, lontana da tutto ciò a cui dovrebbe invece naturalmente essere legata.
Ma ancora una volta a vincere è il tempo stesso, col suo scorrere veloce, col suo costante senso di smarrimento. Un tempo fatto di parolae immediate, dirette, che descrivano, che colgano l’essenza, che comunichino, che emozionino. La scrittura della cronaca, del piccolo uomo, dell’uomo qualunque. Quasi si fosse obbligati a rimanere in superficie, senza calarsi, senza andare oltre. Rimanere al di qua del problema, guardarlo e salutarlo, coscienti della sua esistenza.
Eppure c’era un tempo in cui consapevolezza e cambiamento si conoscevano, sì bene da far paura. Quando le parole viaggiavano più veloce di come fa il tempo oggi, quando il male non era poi un bersaglio dei nostri no, ma un trampolino per i nostri si.
“…I am involved in mankind, and therefore never send to know for whom the bell tolls; it tolls for thee.”
(John Donne – No man is an island)