I gatti dimostrano di avere un’assoluta onestà emotiva. Gli esseri umani, per una ragione o per l’altra, quasi sempre riescono a nascondere i propri sentimenti. I gatti no.
Da amante dei gatti – oltre che dei libri – non posso che condividere il modo di vedere di Ernest Hemingway. Molti sono gli scrittori che nell’amore per un gatto, creatura solitaria, indipendente e fiera, hanno trovato conforto e illuminazione. Hemingway ne aveva ben cinquantasette, alloggiati all’ultimo piano della sua villa cubana. I gatti erano la sua fonte di ispirazione e di consolazione: se li teneva vicino mentre rifletteva, mentre scriveva; e i gatti, con le loro movenze sinuose, gli occhi magnetici e il brusio soffice delle loro fusa, erano nutrimento per l’anima, quel sentimento che accendeva l’estro della sua scrittura. Un amore iniziato negli anni dell’infanzia vissuta all’aria aperta, tra gli alberi di Oak Park – sobborgo di Chicago che gli diede i natali – e le gite alla riserva indiana insieme al padre, medico naturista che l’infettò con la passione per la natura e soprattutto per gli animali.
Poi, la guerra. Arruolatosi volontario durante la Grande Guerra, come molti giovani scrittori in cerca di avventura e di emozioni da trasformare in materia grezza per i propri romanzi, negli anni Venti sbarcò a Parigi, indurito dal fronte, la sua scrittura irruvidita dagli orrori visti in battaglia, e allo stesso tempo permeata da una “vigoria morale e fisica”, costantemente protesa in avanti a cogliere frammenti di bellezza, specchietti per le allodole di una vita che, senza i suoi rari momenti di furore sacro, di illuminazione, di immortalità, non avrebbe alcun senso né valore. Che ruolo hanno i gatti nella poetica di uno scrittore che è pietra miliare della letteratura americana? Mi piace pensare che Hemingway rintracciasse nella loro esistenza uno spicchio di quell’assoluto che andava cercando attraverso la sua scrittura, e una compenetrazione con un altro essere vivente che difficilmente si può raggiungere con un essere umano. Perché gli uomini sono fasulli, bugiardi, menzogneri: Hemingway stesso non ne aveva una grande opinione. Gli uomini, celati e divorati dalla consapevolezza del loro essere effimeri, non offrono allo scrittore l’ispirazione e il conforto della lirica. Ma i gatti no. Nella loro inconsapevolezza, nella leggiadra indolenza delle loro cadenze si aspira un sentore di quella perfezione dell’universo che solo in rari momenti di illuminazione a noi umani è dato di percepire.
Muse ispiratrici e fonti di affetto, i gatti ricordavano a Hemingway la bellezza, del mondo e della vita, nonostante la sua assoluta mancanza di senso davanti alla prospettiva della fine. Bevitore incallito, impenitente donnaiolo, avventuriero sprezzante del pericolo e irriverente davanti alla paura della morte: solo i gatti riuscivano a sciogliere l’aspro involucro dentro al quale Hemingway custodiva la sua essenza più tenera e commossa, la parte migliore e peggiore della sua personalità, croce e delizia e fiamma viva e ardente della sua scrittura. La stessa fiamma che alla fine lo consumò, con le sembianze della depressione, della paranoia, della malattia a cui pose fine sparandosi un colpo alla tempia. Nemmeno i gatti riuscirono a salvarlo dal rogo ardente di quel fuoco interiore, sacro e mortifero insieme, portatore di vita e morte. Hemingway se ne andò, ma i suoi gatti sono rimasti lì, nella casa di Key West, indolenti testimoni della sua storia.