Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Mi sembrava doveroso aprire questo articolo con queste parole: quelle di Umberto Saba, anch’egli triestino, anch’egli visceralmente legato alla città di confine che gli diede i natali. Già, perché prima ancora di raccontare la storia di un’amicizia letteraria, e di come essa influenzò due tra i più grandi narratori dell’epoca moderna, qui voglio rendere omaggio a una città che ispirò l’opera e probabilmente tessé sottilmente i fili di quel legame tra due anime immense, immensamente sole, che dall’amore per la città furono accomunate.
Trieste è città di limiti e di superamenti. Italiana, austriaca, slovena. Ha un’anima nobile e melanconica; bellissima e decadente, altera e mai vanitosa, si specchia nelle onde di un mare che sembra bagnarla per lambirne le pene, per alleviare i taglienti soffi della Bora invernale. Eclettica, città di cultura, Trieste è musa ispiratrice dell’Arte. Saba l’amò, ma ancora di più devono, al fascino misterioso di questa città dalle armoniche contraddizioni, Italo Svevo e James Joyce.
Triestino di nascita il primo, immigrato il secondo, entrambi respirarono nell’atmosfera triestina un balsamo sanifico per le loro anime ferite; per Svevo fu una cura tardiva, fu in grado di recepirla soltanto nella tanto decantata “senilità”, quando ormai le aspirazioni letterarie frustrate l’avevano reso un borghese come gli altri, dedito ai commerci nell’azienda di famiglia (quella di sua moglie Livia Veneziani), costringendolo a reprimere il suo talento letterario nascosto, che forse nemmeno sarebbe venuto alla luce se James Joyce non avesse creduto in lui, presentando La coscienza di Zeno a dei suoi amici critici francesi, i quali lo trasformarono in un caso letterario, regalando a Svevo un po’ di quel successo tardivo che gli alleviò le pene della vecchiaia e lo condusse per mano alla morte, accompagnandolo negli ultimi tre anni della sua vita.
Joyce invece arrivò a Trieste giovane di belle speranze. Auto-esiliatosi dall’Irlanda, terra patria allo stesso tempo amata e odiata perché avvertita come repressiva – Joyce fu sempre molto critico nei confronti della società irlandese, così come Svevo lo fu nei confronti della borghesia triestina, caratteristica questa che li accomuna entrambi al drammaturgo H. Ibsen, critico per eccellenza delle neglette aspirazioni della nascente borghesia cittadina, mediocre, avara e ossessionata dall’esigenza di apparire – Joyce giunse a Trieste poco più che ventenne. Qui, nella città frustrata dai venti e carezzata dalle onde, ritrovò quella pace interiore che gli permise di dare alla luce l’Ulisse.
Joyce amava profondamente Trieste, in una maniera pura e scevra di stridori, come si può amare soltanto una patria elettiva. La sua affezione è priva di quei contrasti che invece caratterizzano l’attaccamento di Italo Svevo alla sua città natale; eppure, è proprio l’amore condiviso per una terra sentita, seppure in maniere differenti, come patria, a unire i due uomini – prima ancora che i due scrittori – in un rapporto che sarà altamente prolifico per la loro carriera letteraria.
Svevo contattò James Joyce perché gli insegnasse l’inglese: ne aveva bisogno per curare gli affari esteri della sua azienda, e probabilmente per evadere dalla quotidianità della sua realtà di vita; Joyce, dal canto suo, l’irlandese schivo e baldanzoso insieme, aveva bisogno di sentirsi inserito in un mondo che, nonostante tutto, non gli apparteneva. Si conobbero, e Joyce amò la grazia remissiva di quell’uomo che appariva coartato in una vita che non era la sua, che gli calzava stretta e lo rendeva nevrotico; nella sua passione segreta per la scrittura colse il germe di un talento non realizzato, che si impegnò, con la sua freschezza da giovane artista deciso e spudorato, a tirare fuori. Gli diede il coraggio che gli mancava. D’altro canto, Svevo esercitò su Joyce il fascino di un maestro decadente, cui ispirarsi per conferire maggiore profondità emotiva alla sua scrittura.
Erano gli anni dei fermenti psicoanalitici: entrambi furono affascinati dalle scoperte freudiane. Svevo tentò addirittura di intraprendere l’analisi con S. Freud, ma senza successo. Alla fine si convinse del fatto che l’opera freudiana avesse maggior ascendente sull’ispirazione letteraria che come cura per le nevrosi. Joyce, seppur – come avrebbe detto Freud – inconsciamente, fece sua la teoria di colui che considerava un mentore, e provò per primo ad applicare il metodo delle libere associazioni alla scrittura, dando vita alla tecnica letteraria del flusso di coscienza.
L’Ulisse e La coscienza di Zeno appaiono così legati da due filamenti sottili, che si annodano stretti nel cuore di Trieste, passando per le anime di due uomini che la vissero e l’amarono. Trieste generosa, a due uomini ha fatto l’impareggiabile dono dell’amicizia; a tutti noi altri ha regalato, per tramite di quegli uomini e del loro legame, due indimenticabili capolavori letterari.