Me lo ricordo come fosse ieri, come se non fossero passati anni. Nella mia smania di lettrice compulsiva quattordicenne lo vidi, nella libreria di una mia giovane zia, “Porci con le ali”. Lo trafugai, non lo rubai, non è il termine appropriato, proprio lo trafugai. Ne lessi le pagine in segreto, poi lo nascosi con molta cura in un cassetto. Sentivo di commettere una trasgressione, ed era quello, più che la lettura in sé, a procurarmi un senso d’euforia, di eccitazione. Oggi no, non è più così, hanno rubato alle nuove generazioni la possibilità di commettere quel furto e, al contempo, hanno continuato a non educarli al sesso. Al gesto di spiare dal buco della serratura, hanno tolto il proibito, il solo vero gusto, non certo ciò che realmente si trovava dall’altra parte.
Non nascondo che un certo prurito m’ha attratta nella scelta di questo libro, misto alla curiosità verso l’idea di raccontare la vita d’un uomo attraverso il racconto delle sue esperienze sessuali. Riuscire magari di nuovo a provare la stessa sensazione di 15 anni fa.
“Autobiografia erotica di Aristide Gambìa” di Domenico Starnone si propone di fare questo, riavvolgere i fili della vita e poi dipanare la matassa seguendo quello della sessualità.
Una lettera indirizzata ad un editore cinquantenne, Aristide Gambia, e contenente il racconto esplicito di una passata esperienza sessuale, sua e di una giovane donna, Mariella Ruiz, irrompe nella sua vita quieta, o meglio acquietatasi. La lettera stessa annuncia la visita della mittente a Roma, città d’adozione dell’editore, di origine napoletana come lei, per parlare di quello che accadde tra loro trent’anni prima. Mariella e Aristide, in una manciata di giorni, cominciano una schermaglia verbale, un’amorosa tenzone, un reciproco esporsi nel ripercorrere nella memoria, sovrapposta al presente, quella che all’epoca parve non più d’una scappatella. Invece quell’incontro nel passato, inaspettatamente, allungò la sua ombra sul futuro d’entrambi. Il desiderio sessuale, il riappropriarsi del dialetto d’infanzia, così denso di significati e significanti, la voglia di esplorare tutto ciò che, pensato per anni, non aveva trovato approdo lecito sulle labbra, sospinge Aristide ad uno sfogo, lungo anni, che riempirà quaderni indirizzati tutti a lei, Mariella, quasi una ventata calda nella sua esistenza. Fino all’incontro con Magda, lui ormai settantenne, donna giovane che parrebbe un’estranea, che un’estranea non è. Ed eccole tra le pagine, le donne che Aristide ha amato e posseduto, o solo desiderato, quelle che ha voluto con sé, quelle che ha voluto avere solo sotto di sé. Ricorda i loro visi, il loro modo di parlare, ma anche le loro voglie, i loro odori, i loro umori. Nina, Giuliana, Ste, Nera, la tanto amata Leonora, l’ultima compagna Lina, descriverle senza descriverne la “fica” significherebbe non raccontarle tutte, nella loro interezza.
Il libro non è solo questo però, parla del cambiamento del desiderio, dei mondi distinti e distanti delle donne e degli uomini. L’autore stesso, in un lungo capitolo, racconta le sue difficoltà nel calarsi nelle parti femminili, al punto di aver spesso pensato che il libro, nato come due racconti separati, non avrebbe mai visto davvero la luce. Lo stesso autore, frustrato da questa difficoltà, racconta il difficile momento in cui molti riconobbero in lui la scrittrice Elena Ferrante. Un paradosso che lo vedeva alle prese con la difficoltà di farsi io narrante femminile, con il mondo che lo giudicava un transessuale della letteratura.
Appena poche righe dall’inizio ed eccolo, scritto nero su bianco, “cazzo”. Non è che l’inizio. Dopo poco “fica”, “sfaccimma” e via così, termini sempre più espliciti, che appartengono ad un dialetto che condivido con l’autore, di cui capisco il senso profondo, sporco, direbbero nei vicoli. Le parole sporche. Non è stato facile allora proseguire, senza che quei termini si accendessero sulla pagina distraendomi.
Il sesso ha una sua lingua, che ti insegnano a pensare e a non parlare e, dopo una vita in cui ti imponi di imparare questa lezione, non è cosa da poco vedere lo sforzo di un altro che usa le parole giuste, quelle appropriate, talvolta volgari, per descrivere l’incontro di due corpi. Perché è il sesso talvolta ad essere volgare, gli odori non li racconta mai nessuno. Starnone non trascende, non usa volontariamente il linguaggio triviale al solo scopo di destare un interesse morboso. Usa il dizionario dei corpi e dell’esperienza, nulla più, compie un gesto rivoluzionario proprio perché attinge all’ordinario.
Non voglio passare per bigotta, anche se ne corro seriamente il rischio, inevitabile forse. Mi piacerebbe vivere in un paese dove non si veda la pornografia dei sentimenti spadroneggiare nel palinsesto televisivo, dove il sesso è tirato in faccia ai ragazzi senza nessuna spiegazione. Dove dire cazzo non sia sovversivo, dove non ci tolgano il gusto di trafugare un libro. Dove questo sia solo un libro davvero molto sincero. Un libro nudo.