In una lettera del 4 febbraio 1961 Luciano Bianciardi scrive:
In preparazione avrei un altro libro, più grosso e più cattivo, su Milano. Nonostante il passare degli anni, la rabbia contro questa città cresce di continuo. Qui c’è un vantaggio: che ti danno un lavoro e ti pagano. Per il resto non è una città, non è un paese, non è niente. È solo una gran macchina caotica, senza cielo sopra e senza anima dentro. Andrebbe minata. Eppure tutti si ostinano a dire che è il cuore d’Italia.
Il libro a cui si riferisce è La vita agra che sarà pubblicato nel 1962 dalla Rizzoli.
Dal 1954, anno del suo arrivo nella metropoli da Grosseto e dalla Maremma, Luciano Bianciardi di cose ne ha fatte. Ha già pubblicato I minatori della Maremma (1956), Il lavoro culturale (1957), L’integrazione (1960), Da Quarto a Torino (1960), Breve storia della spedizione dei Mille (1960), più articoli e racconti per l’Avanti, L’Unità, il Contemporaneo.
Ma il grosso del lavoro sta nelle traduzioni dall’inglese. Sino a quell’anno ha tradotto per le case editrici con cui collabora (Feltrinelli, Mondadori, Rizzoli, Einaudi, Frassinelli, etc.) una sessantina di libri. Gli autori tradotti da Bianciardi si chiamano Saul Bellow, Stephen Crane, Irwing Shaw, John Steinbeck, Aldous Huxley, Fred Hoyle, William Faulkner, Somerset Maugham, Norman Mailer, Jack Kerouac. L’autore determinante fu, però, Henry Miller di cui Bianciardi tradusse il Tropico del Cancro e il Tropico del Capricorno. Attraverso Miller Bianciardi si intravede una forma di scrittura diversa (“di pancia”, come dirà poi).
Carlo Ripa di Meana, grande amico di Bianciardi, dice: “In quei mesi del 1961, dalla primavera all’autunno, non faceva altro che parlare di Miller. Il lavoro lo dominava completamente. Alla sera ci leggeva le pagine che aveva fatto durante il giorno e si vedeva con quanto sforzo, con quanto entusiasmo stava traducendo”.
Non è un caso, quindi, che La vita agra per Bianciardi sia anche una sterzata stilistica rispetto alla sua precedente produzione letteraria, e soprattutto rispetto a Il lavoro culturale del 1957 e a L’Integrazione del 1960 destinati a formare con la Vita Agra una sorta di trilogia.
Il libro arriva in lettura alla Rizzoli, all’Einaudi e alla Bompiani. La Bompiani lo pubblicherebbe se Bianciardi fosse disposto a tagliare alcune parti, Italo Calvino ne è entusiasta e lo vorrebbe nel catalogo dell’Einaudi, Bianciardi opta per la Rizzoli dove lavora Domenico Porzio in qualità di vicedirettore editoriale.
Il successo è fulmineo. Il 2 ottobre, a due settimane dall’uscita del libro, sulla terza pagina del Corriere della Sera compare un articolo di Indro Montanelli dal titolo Un anarchico a Milano che così si conclude: “La vita agra è uno dei libri più vivi, più stupefacenti, più pittoreschi che abbia letto in questi ultimi anni”.
E Bianciardi nel dicembre del 1962:
La vita agra va bene, hanno messo in vendita la quarta edizione, ci avviciniamo alle ventimila copie, hanno ceduto i diritti per la traduzione in inglese. De Laurentiis ha chiesto di trattare i diritti cinematografici…
Il film esce nel 1964 diretto da Carlo Lizzani e ha come protagonisti Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli.
E nel mezzo ci sono le presentazioni del libro in giro per l’Italia. Bianciardi, accompagnato da Domenico Porzio, partecipa a feste e convegni a Milano, ma anche in città dell’Emilia e della Toscana.
Di questo successo sono contenti tutti meno che Bianciardi.
In una lettera di quel periodo scrive: “Oramai poi sto girando come un rappresentante di commercio, ho battuto i marciapiedi dell’Emilia e adesso mi preparo a fare la medesima cosa nel Veneto. Viene con me Domenico Porzio e a volte sembriamo due comici da avanspettacolo: sempre le stesse battute, e sempre la faccia di chi le dice per la prima volta. Mi comincio a vergognare e perciò stamane ho ricominciato con il solito lavoro di tutti i giorni per riconquistarmi la stima di me medesimo”.
Per capire queste parole, ci si deve immergere nel libro.
Bianciardi ha abbandonato il giochetto del doppio “narratore” dei suoi romanzi precedenti e costruisce un occhio solo che abita la grande metropoli e vive con i suoi personaggi nei variegati ambienti di cui la grande città si riempie. Ci conduce nel cuore della “Braida” (quartiere popolare) e nel Caffè delle Antille frequentato da pittori e da ragazze dai piedi sporchi, e poi ci racconta il suo amore contrastato per Anna, il loro vivere assieme da randagi, il suo lavoro di traduttore, unica fonte di reddito, le venti cartelle al giorno che deve comporre per far quadrare i conti, il giro per le case editrici, le cambiali, gli incubi notturni.
Ma prima “il sogno dinamitardo”. Già, perché il protagonista (impersonato da un “io” autobiografico) è arrivato nella grande città con una missione: vendicare i quarantatré morti di un incidente minerario avvenuto nella maremma, e nella metropoli c’è il cervello di quel fantasma finanziario responsabile della tragedia.
“Io venivo ogni giorno a guardare il torracchione di vetro e di cemento, chiedendomi a quale finestra, in quale cassetto potevano aver messo la pratica degli assegni assistenziali, dove la cartella di Femia, di Calabrò, di tutti e quarantrè i morti del 4 maggio. Chiedendomi dove, i che cantone, in che angolo, inserire un tubo flessibile ma resistente per farci affluire il metano, tanto metano da saturare tutto il torracchione…”
Deve consumarla la vendetta per tutti i morti della tragedia e per Tacconi Otello, addetto alla manutenzione delle strade a Montemassi, ex consigliere provinciale del partito comunista e licenziato dalla società mineraria per un discorso politico.
Ma intanto c’è la città fotografata in tutti i suoi aspetti, una città che vibra per quello che passerà alla storia come “miracolo economico”. Se soldi e benessere circolano, la gente si spoglia di ciò che è umano.
Allora “Non trovi persone, ma soltanto la loro immagine, il loro spettro, trovi i bacelloni, gli ultracorpi, gli ectoplasmi. Nei primi mesi del loro arrivo in città forse no, forse resistono e hanno ancora una consistenza fisica, ma basta un mezzo anno perché si vuotino dentro, perdano lingua e sangue, diventino gusci”.
L’unico obiettivo della gente è sistemarsi ai vertici e rimanerci. “Così la bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo che vi si mantiene…”
Anche la nebbia in città è diversa. “E prodotto locale è. Solo non è nebbia. È semmai una fumigazione rabbiosa, una flautulenza di uomini, di camini, è sudore, è puzzo di piedi, polverone sollevato dal taccheggiare delle segretarie, delle puttane, dei rappresentanti, dei grafici…”
Di tutto questo e di altro è intessuto La vita agra. Una negazione della metropoli che in quel lontano 1962 assurge a simbolo di un progresso e di un benessere senza precedenti, ma anche di sé dal momento che in questo ingranaggio rimane incagliato.
Di colpo da oscuro traduttore e scrittore di romanzi di scarso successo si trova al centro della scena culturale milanese. Indro Montanelli gli offre un lavoro al Corriere della Sera per trecentomila lire mensili. Tanti soldi non li ha mai visti, Bianciardi. Rifiuta l’offerta perché il Corriere della Sera dell’epoca sta dalla parte dei vari “Torracchioni” di cui la città è imbastita, ma getta la spugna nell’incomprensione più totale. Alla fine del libro il protagonista dirà: “Poi il sonno è già arrivato e per sei ore io non ci sono più”. La non-esistenza attraverso il sonno per Bianciardi non si riduce solo a una finzione letteraria, ma sarà lo stato mentale che lo accompagnerà sino alla fine della sua vita.