William Faulkner non nasce nell’Est troppo europeizzato. Non nella California cattolica, cosmopolita e toccata dall’Oriente. Il suo ambiente mite e fantastico e nel Sud, non completamente isolato dalle zone industriali attorno ai laghi, ricco di memorie della Guerra Civile e dei vecchi coloni, e dove il puritanismo sfocia nelle discriminazioni razziali e nell’attrito con i ghetti delle comunità di colore. La sua opera è uno splendido percorso che si impervia lungo il Missouri, dal Tennessee al Mississippi. Ed immaginate in queste terre luride ville di legno costruite più di un secolo e mezzo fa, cadenti col soffitto pendolante ma ancora abitate (di certo non abitabili); le capanne di quei “negri” che lavoravano nelle piantagioni o nelle segherie di legname, e che si mantenevano col contrabbando di alcool durante il Proibizionismo; prigioni e tribunali di cittadinanze agricole; collegi universitari; grosse baracche simili a moschee con all’interno degli altari presso cui i negri, dopo aver finito di lavorare, accorrevano per pregare con in mano accese delle lanterne rosse fuoco, come piccole ed eccitanti lucciole nel buio della sera; case equivoche frequentate da banditi e senatori; campagne solitarie che diventano la dimora teatrale di mafiosi incalliti. Questi ed altri sono i paesaggi in cui si muovono tutti i personaggi del Faulkner, evocandoli con un’arte precisa ma senza troppa pedanteria, intensa ma non troppo colorata, potente e suggestiva ma chiaroscura. Non propriamente barocca, in quanto non si mantiene su un piano solo: passa con leggerezza da un tono alto a uno basso, dall’iperbolico all’elementare, dal quotidiano all’eterno, come un laccio teso mentre scroscia su di esso un’impervia tempesta e che rischia di spezzarsi.
L’urlo e il furore del 1929 è il suo primo grande capolavoro, sicuramente da annoverarsi tra i libri più impervi ed impenetrabili che esistano, e dietro cui si percepiscono e giganteggiano modelli letterari come l’esistenzialismo religioso di Melville, la poetica leggerezza di Hemingway, la lettura della Bibbia, di Shakespeare, e non ultimo per importanza lo sperimentalismo linguistico di Joyce. In questo libro la scrittura di Faulkner da vita a tutte quelle cose descrivibili solo dopo averle sperimentate, una scrittura immanente, che scava dentro e che riesce a modellare quella paura che non riusciamo mai a descrivere, la cui impenetrabilità ci assale e ci confonde. Una scrittura immanente perché onnivora, figlia della nostra irripetibile esperienza personale perché la più intima ed autentica, che si nutre di tutto ciò che proviamo direttamente sulla nostra carne, in un confuso ibrido di sensualità pudica e violenza repulsiva.
L’opera narra la storia torbida e labirintica della famiglia Compson, della loro decadenza e delle loro sventure sullo sfondo del Sud americano, alle soglie della Depressione. La giovane Caddy sembra essere all’inizio una presenza candida e rassicurante per dimostrarsi alla fine una sorella ingenerosa e una madre snaturata che abbandona la figlia. I suoi tre fratelli, Benjy, Quentin e Jason sono troppo coinvolti negli avvenimenti per riuscire a fare chiarezza fino in fondo, e sarà solo Dilsey, la cuoca negra, capace di slegare la matassa rugginosa che avvolge tutta la famiglia.
Nella decadenza morale di ogni personaggio Faulkner mette in mostra metaforicamente la “Vita” come “Caduta”. Dilsey è probabilmente l’unico personaggio che riesce a capire cosa siano i sentimenti, diventando quella madre che i ragazzi non hanno, affettuosa e comprensiva. Quindi un grande romanzo sui Sentimenti, ma anche un romanzo sulla Colpa e sui suoi più efferati effetti: una colpa che pesa sulla testa di ogni personaggio salvo Dilsey, ed una colpa che, come una grossa coltre di fumo nero, sembra oscurare il mondo intero. Ma è anche un grandissimo romanzo sulla Redenzione: Caddy e i fratelli esistono per mostrare senza scuse la loro colpa, e quindi per fare luce sull’angoscia che li paralizza e dalla quale sono posseduti. Il romanzo catalizza su di sé tutti quegli splendori perduti e irrecuperabili, divenuti oramai delle ineffabili miserie. Ed alla fine, attraverso la pietas cristologica della vecchia negra Dilsey, Faulkner, dopo tutto l’abisso che intrepidamente ci ha fatto conoscere, ci propone nient’altro che una debole ma indelebile speranza di luce. Quella speranza che in tutto il libro sembra un corpo folgorato, ferito e martoriato, ma capace ancora di dare linfa, di esprimere vita.
Un libro come L’urlo e il furore, nell’attuale mondo dell’editoria, dovrebbe esplodere come una bomba a mano senza linguetta.