Raccontare e parlare non sono sinonimi, siamo capaci tutti di parlare di qualcosa, raccontare è un’altra storia. Ci sono delle persone che incantano, ci ritroviamo ad ascoltarli pendendo dalle loro labbra, come se dalla punta delle loro lingue si dipanasse una strada percorribile chiudendo gli occhi, lasciandosi condurre per mano, riponendo fiducia nelle parole, accingendosi così a compiere un viaggio che comincia senza muovere neanche un passo.
“La bambina che raccontava i film” di Hernan Rivera Letelier racconta una storia agre, delicata e malinconica, sul potere delle parole. Maria Margarita è una bambina, ha quattro fratelli, tutti maschi ed un papà, un invalido ammalato nel fisico e nell’animo, da quando la sua giovane moglie Maria Magnolia lo ha lasciato. La loro è una famiglia molto povera, che vive in una città anch’essa povera e polverosa, unica distrazione il cinematografo. Attraverso lo schermo può capitare anche a persone come loro, minatori che respirano l’aria del deserto dell’Atacama, di incontrare Marylin Monroe e tutti gli altri divi di Hollywood. Il biglietto del cinema è troppo costoso però, non è possibile per loro acquistarne ben sei, solo uno allora dovrà recarsi in sala, assaporare il sogno rappresentato in pellicola per poi raccontarlo agli altri. Come scegliere il fortunato? Con una piccola competizione dalla quale uscirà vincitrice proprio la piccola Maria Margarita. Da quel momento sarà la bambina gli occhi e la voce della sua famiglia e, col tempo, dell’intero paese, al punto di essere chiamata alla sua recita nelle case dei benestanti, adottando anche un nome d’arte Fata Delcine. Maria Margarita ha un dono, un talento di antica memoria, quello dei cantastorie. Gli applausi la nutrono, gli occhi agognanti la spingono a migliorarsi, a danzare, a cantare, a donarsi al pubblico. La felicità non abita all’Officina però, modo in cui è chiamata la piccola cittadina. Il destino, che nulla ha a che vedere col karma, che anzi pare esserne il contrario piuttosto che il sinonimo, si accanisce sugli ultimi senza risparmiare nemmeno chi ha dimostrato di avere dentro di sé un fuoco sacro.
Hernan Rivera Letelier è uno scrittore cileno, un vero cantastorie che, in una forma essenziale e priva di fronzoli, emoziona ed incolla alla lettura. Poche pagine che condensano tante emozioni, che stringono un nodo allo stomaco. Narrare le piccole vite, lo spaccato dell’esistenza di un posto destinato a sparire, come la capacità di ascoltare, è senza dubbio frutto di talento. Impossibile smettere una volta che lo si è cominciato, mi sono ritrovata a leggerlo camminando per strada, all’uscita di una metropolitana, sfidando il traffico e gli attraversamenti pedonali. La nostalgia, i cui effluvi si spandono dalla carta, pare afferrare con forza e quasi schiaffeggiare, l’atmosfera da favola invece la mitiga e trasforma la mano aperta, pronta a colpire, in una carezza.
La modernità che tanto ci ha dato ci ha anche tolto tanto, come ha fatto con Maria Margarita. Il cinema aveva una forza attrattiva che gli impediva di svendersi, aveva un ruolo definito, consentire di immaginarsi altrove, di dimenticare il mondo e le sue brutture abbandonati nelle poltrone che parevano diventare tappeti volanti. Lontani da un tempo fatto di Natali a Miami, in Egitto o in qualsiasi altro luogo. Lontani da un mondo nel quale parlare e raccontare sono sinonimi. Lontani da un mondo dove Maria Margarita non ha un suo posto.
Solo nei romanzi, forse in particolare in quelli sudamericani, quel mondo antico sopravvive ancora, Maria Margarita continua a raccontarci i film che vede al cinematografo. Sta a noi scegliere di ascoltarla.