Allora il re ritornò all’albero e, prendendo il vampiro che vi si trovava, lo mise sulle spalle e tornò indietro. Cammin facendo, il vampiro disse al re:
« Sire, ascoltate, vi racconterò una breve storia.
In una città di nome Vārānasï, residenza di Siva, viveva un tempo un bramino onorato dal re, che si chiamava Devasvāmin. Quest’uomo ricco aveva un figlio, Harisvāmin, la cui sposa graziosissima aveva nome Lāvanyavatï. Penso che il Creatore l’avesse plasmata dopo essersi esercitato con le ninfe del cielo, perché la sua bellezza ed il suo fascino erano inarrivabili.
Ora avvenne che Harisvāmin, dopo una notte d’amore, si addormentasse con la sua sposa nel palazzo imbiancato dai raggi della luna. In quell’istante un giovane principe degli Spiriti dell’Aria, di nome Madanavega, che si muoveva nell’etere a suo piacimento, discese di là, scorgendo Lāvanyavatï dormiente. Il vestito, scivolato durante le effusioni amorose, lasciava intravedere la perfezione delle sue forme. La sua bellezza gli catturò i sensi; accecato dalla passione, si precipitò su di lei e la rapì nei cieli dormiente.
Dopo un certo tempo suo marito, il giovane Harisvāmin, si svegliò. Non vedendo la sua amata si levò, colmo di ansia: “Cosa significa questo? Dov’è andata? E’ forse in collera? Oppure si è nascosta per scrutare il fondo della mia anima, prendendomi in giro?”
Turbato da tali supposizioni, vagò nella notte, cercando sulla terrazza del palazzo, nelle torri e fin nei giardini. Non trovandola, si lamentava e singhiozzava, consumandosi nel fuoco del dolore: “Ahimè! O beneamata bionda come il chiaro di luna, tu il cui viso assomiglia al disco lunare, forse la Notte, non tollerando bellezze pari alle sue, non ha sopportato la tua esistenza? La Luna che, vinta dalla tua bellezza, sembrava aver avuto paura e ti confortava con i suoi raggi freschi come il sandalo, ora che sono privo di te si vendica e mi colpisce, o beneamata, con quei raggi che sono per me carboni ardenti o frecce avvelenate.” Così gemeva Harisvāmin. La notte passò, ma non passò il dolore della separazione.
L’indomani i raggi del sole fecero svanire le tenebre che coprivano il mondo, ma non poterono dissipare le spesse tenebre della sua disperazione. L’eco delle sue grida era moltiplicato per cento, come se le civette alla fine della notte gli avessero fatto dono delle loro lacrime.
I suoi parenti tentarono di consolarlo ma, arso dal fuoco della separazione, il giovane bramino non poté controllarsi senza colei che amava. Si aggirava piangendo: “Qui stava in piedi, qui si bagnava, ecco, qui invece si preparava e qui si divertiva…”. I parenti lo suppicavano: “Non è morta, perché tu ti lasci morire? Se vivi, la ritroverai certamente. Mostrati coraggioso e cercala ancora: non c’è nulla che un uomo risoluto e determinato non possa raggiungere.”
A fatica, egli riprese coraggio dopo diversi giorni, mosso da una speranza: “Distribuirò tutti i miei beni ai bramini, visiterò luoghi sacri e cancellerò tutti i miei peccati. Una volta scontati i miei peccati, ritroverò senz’altro la mia beneamata.”
Con questi nobili pensieri, andò a compiere i riti, iniziando dal bagno; il giorno dopo offrì ai bramini, durante un sacrificio, cibi e bevande, poi donò loro tutte le sue ricchezze senza tener nulla per sé.
Infine lasciò la sua terra, portando con sé solo le sue qualità. Nel suo desiderio di ritrovare la donna amata attraversò i luoghi sacri. Nel corso di questi viaggi sopravvenne il temibile Leone Estivo dalle fauci di sole ardente e la criniera di raggi infiammati. I Venti soffiavano brucianti, come se fossero stati riscaldati dal respiro dei viaggiatori sospiranti di dolore per esser stati separati dai loro amati. Gli Stagni sembravano avere il cuore infranto con il loro fango secco e spaccato, le acque abbassate dal calore. E gli Alberi sembravano piangere la scomparsa della gloriosa Primavera: come labbra, le foglie appassite dall’ardore solare mormoravano sotto il grido acuto delle cicale.
In quel momento, mentre errava stremato dal sole, da dolore, fame, sete e dal perpetuo vagare, arrivando in un villaggio entrò ad elemosinare del cibo presso un bramino di nome Padmanābha che preparava un sacrificio. Harisvāmin, polveroso, emaciato, la pelle rugosa, restò senza parlare né muoversi, addossandosi al portone perché aveva visto un certo numero di bramini che mangiavano. Vedendolo in tale stato, la sposa del bramino ne ebbe pietà: “La fame, si disse, è un essere forte: chi non riesce ad abbattere? Ecco un uomo alla mia porta, desideroso di nutrimento, la testa bassa, sfinito dalla fame dopo un lungo viaggio. Non è il caso di offrirgli da mangiare?”
Così, la brava donna prese tra le mani una ciotola di riso al latte con burro fuso e zucchero e glielo porse cortesemente: “Va’ a mangiare sul bordo dello stagno: questa sala, affollata di bramini che si nutrono, è impura per te.”
“Farò così” disse lui, e prendendo il riso si mise non lontano, al bordo del lago, sotto un banano. Poi si lavò mani e piedi, si sciacquò la bocca e ritornò contento verso il riso. Ma nello stesso momento un’aquila con un serpente nero nel becco si era appollaiata sull’albero. Una schiuma velenosa usciva dalla bocca del serpente morto colando fino alla ciotola del riso. Harisvāmin, senza veder nulla, e affamato com’era, mangiò il riso. Ma quando lo mangiò tutto, il veleno gli provocò terribili dolori.
“Quando il destino è contrario –gridò- nessuno può sfuggirgli. Questo riso al latte si è trasformato per me in veleno.”
Tormentato dai dolori, Harisvāmin vacillò fino alla moglie del bramino che faceva il sacrificio e le disse: “Il riso che mi avete dato è stato un veleno per me. Chiamate subito un uomo che conosca le formule magiche contro l’avvelenamento, o sarete causa della morte di un bramino.”
Appena Harisvāmin ebbe parlato, mentre ancora la donna agitata si chiedeva cosa volesse, gli occhi si rivoltarono e morì.
Allora il bramino sacrificatore scacciò la moglie da casa, pur essendo ella innocente ed ospitale. Era in collera a causa della morte del suo ospite che a torto le attribuiva. Quanto alla buona sposa che senza colpa aveva subito una simile accusa ed era divenuta oggetto di disprezzo, prese rifugio in un luogo sacro per fare penitenza.
Ci fu un dibattito al cospetto del dio Yama per sapere chi, tra serpente, aquila o coloro che avevano offerto il riso, fosse responsabile della morte violenta del bramino. Non si trovò alcuna soluzione. »
« O re Vikramā, riprese il vampiro, ditemi dunque ora chi è stato il responsabile di questa morte violenta. Se non parlate, la maledizione che ho già proferito ricadrà su di voi.»
A queste parole minacciose il re fu costretto ad uscire dal silenzio: « Innanzitutto –disse- questa colpa non ricade minimamente sul serpente: come potrebbe essere colpevole mentre era inerme, divorato dal suo nemico? Quanto all’aquila, quale colpa avrebbe commesso? Aveva fame, ha mangiato il suo nemico naturale, sul quale era capitata per caso e che aveva trascinato sull’albero.
Infine gli sposi che hanno offerto il cibo sono ugualmente esenti da biasimo: votati entrambi alla legge morale, erano incapaci di commettere peccato. Ritengo quindi che la morte del bramino sia da imputarsi ad ogni persona sufficientemente sciocca e superficiale da attribuirla all’uno o all’altro di questi personaggi. »
Così disse il re, e il vampiro, lasciando nuovamente la sua spalla, tornò nel suo rifugio, mentre il re coraggioso ancora una volta lo seguiva.
(trad. di Francesca Schipa)