L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
Dà bei vermigli fiori
Nel muto orto solingo
Rinverdì tutto or ora,
E giugno lo ristora
Di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta
Percossa e inaridita,
Tu de l’inutil vita
Estremo unico fior,
Sei ne la terra fredda,
Sei ne la terra negra;
Né il sol piú ti rallegra
Né ti risveglia amor
A cosa serve l’amore, a cosa serve la luce, a cosa serve la vita. Se la vita nata da te non ha più vita stessa. Non ha senso nemmeno il dolore di un padre, riversato su carta scritta, impegnandosi tra i nomi di coloro che vivono nell’eternità scrivendo una delle poesie più commoventi della storia. Scalfiscono il cuore, quello di chiunque, anche del più freddo e cinico , le parole ebbre di dolore rassegnato di un padre che si perde nella contemplazione di un albero. Solo un albero. Da cui nascono parole e suoni , nella mente e nel cuore , tramortito in così tanti pezzi impossibili da contare, che bruciano ancora a leggerle.
Sembra di essere sfiorati dalla tristezza autentica e assoluta di Giosuè Carducci.
L’infanzia è una cosa così pura che non dovrebbe mai* essere rubata, dovrebbe scivolare via dalle mani troppo sporche di chi osa farlo. Dovrebbe scivolar via persino dalle mani della morte, perché appare come una contraddizione della natura stessa. Carducci, poeta del nostro glorioso Ottocento classicista, uomo impegnato nella letteratura e nella politica, si portava addosso la maledizione del nome del fratello Dante, che come quello del Trecento , s’era perso in una selva oscura senza tuttavia riuscire a trovare alcuna retta via , perdendosi nell’oblio più nero, togliendosi la vita . Ma la vita va avanti, e per metà noi fragili umani siamo paradossalmente immortali, e il dolore fu placato dal piccolo Dante, suo figlio con il nome del fratello. Ma la morte è beffarda e si prese anche il piccolo dal nome funesto. Da quest’ennesima e straziante lutto nasce “ Il Pianto Antico “. L’intera poesia è il ricordo del padre, che dipinge la figura di un bambino che giocava con un albero di melograno, tendendo la mano in alto. L’immagine della pianta , che nonostante tutto è ancora lì, che cresce e fiorisce fredda ed estranea a qualunque dolore umano, fa quasi invidia all’autore. Un padre il cui cuore non ha nulla più di vitale , come un albero che mai più sentirà su di se il tepore di germogli freschi, dal cuore secco, inutile e frustrato. Si chiude con un commento compianto per il figlio che mai potrà più provare la luce del sole e il suo calore, e che mai , or che il suo corpo riposa nella fredda e buia terra, potrà sapere cos’è l’amore.
Una poesia in cui la natura, ciclica e indifferente, si mescola attraverso metafore terrene ,alla fragilità dell’essere umano. Terra e sangue in una sola poesia, che nonostante sia accuratamente costruita secondo lo schema di quattro quartine di settenari, rime e anafore ci appare immediata e immensamente malinconica. La poesia parte con un immagine di rimpianto sereno per terminare in una rassegnazione che sfiora il macabro .Ma dopotutto non c’è da stupirsi, la letteratura italiana è piena di poeti di questo calibro, è uno dei nostri migliori Premio Nobel. Fieri di sentirsi italiani in questo, no ?