Bisogna dirlo ad alta voce, come parole da pronunciare perché appiccicate in gola, senza badare alle spese perché potrebbero far male, quindi meglio sputarle: gli uomini hanno da molto tempo oppresso i fanciulli. I fanciulli, gli infanti in particolar modo, si rivolgono presso coloro che danno a loro tutto: Amore, casa, solidarietà, vestiti. Agli occhi di un fanciullo in fiore, la potenza che viene a soccorrerlo proteggendolo dalle ombre di una notte infausta prima di coricarsi rappresenta un intero universo di candore. Ma nella maggior parte dei casi è da qui che inizia il malinteso: gli adulti, il loro mondo corrotto e facilmente corruttibile, esaudiscono male le loro preghiere, confinandole in un oblio atavico di incestuose paure edipiche. Quanto più i fanciulli soffocano la giovinezza del cuore, annegando lo spirito di libertà e di gioco, tanto più gli adulti sono soddisfatti del loro operato, traghettandoli in palazzi che scambieranno per giostre, ed in meravigliosi giardini nei quali fioriranno non più fiori ma cavoli e carciofi. Ed è meglio stroncare ogni fievole speranza: in questa battaglia gli adulti partono da vincitori. In questa congenita condizione della propria esistenza, questa educazione eccessivamente amorevole porterà l’infante dall’universo del piacere a quello del dovere, perdendo momentaneamente il sogno della libertà. Oggi riconosciamo, con controllata comprensione, che l’Amore per i figli è nascosto in un mondo brutale e ambiguo, eccessivo e parossistico, e che la libertà perversa cui aspiriamo durante l’infanzia sfocerà nelle ribellioni cariche di follia dell’adolescenza. In questo mondo istituito da regole l’adulto vince sempre, ma vince male.
In un classico di tutti i tempi come la fiaba di Pinocchio la cosa che più sorprende, sotto certi punti di vista, è proprio questo violento pedagogismo che non si risolve, e che sfocia nella sua contraddizione, dal quale prende vita il tirocinio di Pinocchio costituito non da valori assoluti ma da figure terrene che non sono altro che residue personificazioni del simbolismo del mondo immaginifico della prima infanzia: l’intento educativo di Collodi, maggiormente esplicato dalla moralità del Grillo parlante, converge nel sottile cinismo della città dell’Acchiappa-citrulli; l’Omino di burro, tra tutti il più odioso, si rivela invece un commerciante dotato di virtù concrete; la Volpe e il Gatto, sotto le bonarie e apparenti spoglie, sono in realtà patetici pezzenti, goffi truffatori e pessimi assassini; l’enorme Mangiafuoco, celebre per la sua crudeltà ma che si dimostrerà alla fine sensibile ed ingenuo come appunto un bambino. Quanto ai personaggi “buoni”, nonostante assumino il ripetitivo stereotipo educativo, ogni volta che subentrano riescono ad ottenere profondità e spessore umano: come la Fata, personaggio mitico – allegorico del sogno evanescente e della figura materna; il falegname Geppetto, pover’uomo, debole, indifeso, murato dalla sua misera condizione, eppure così compassionevole ed amorevole; il Grillo parlante, certo personaggio che è un anti – personaggio perché privo di caratteristiche, ma tassello fondamentale dell’economia narrativa del libro e della identificazione del protagonista.
La cosa più straordinaria in una fiaba come quella di Pinocchio è che durante la sua lettura nulla sfugge all’attenzione del lettore, sia esso un bambino o un adulto. Forse la sua maggior dote è quella di convincere il bambino ad entusiasmarlo, mentre colpirà l’adulto per la sua apparente “immoralità”: Pinocchio non è altro che un fanciullo che prende a botte i compagni, che marina la scuola, che ascolta i consigli degli sconosciuti piuttosto che quelli del genitore o della Fata Turchina, non mantiene le sue promesse e sarà per questo continuamente punito. Pinocchio non è un opportunista, ma viene descritto come una personalità pigra, che non impara mai, i suoi pentimenti sono effimeri e le sue cadute prive di dignità. Ma in realtà Pinocchio è molto più umile, ed ha una sua particolare dimensione tragica: egli non riesce mai a riconciliarsi con se stesso, rinnovando continuamente il tentativo di conquistare un’identità e l’autonomia. Quindi un ribelle mancato, ma credo sia giusto dire anche un bambino mancato: credo che Pinocchio, nonostante il finale, sia rimasto in realtà quel tronco di legno che lo ha generato in partenza, se non grazie a quell’intervento esterno, un intervento magico, che lo trasformerà in ciò che probabilmente non sarà mai: la sua è una condanna a ripetersi, l’incapacità di superare con le sue forze quella natura inumana.
Credo che in questo sia racchiuso il vero messaggio del libro, il suo alto valore pedagogico di cui ne era inconsapevole lo stesso Collodi: Pinocchio, a quasi 130 anni dalla sua comparsa, deve essere un monito per tutto il mondo dell’educazione e della riflessione sulla dignità emotiva e caratteriale dei bambini in generale. Nessun bambino ha il diritto di rintanarsi in un mondo al di là del Bene e del Male fatto di nevrosi, sensi di colpa, ansie di promesse mancate ed afasia. Rimproverarlo certo, anche quello serve a volte, purché gli giunga nuovamente lo stimolo alla libertà.
A tutti i bambini