Chi ama leggere ama le parole, il loro suono, le sfumature lessicali, il diverso senso che possono assumere in base al modo in cui le si accosta. Difficilmente mi mancano, eppure stavolta continuo a pensare bellissimo, molto bello, e combinazioni simili, il perché mi è facile comprenderlo. Per quanto numerose, per quanto profonde e ricercate, esse sono molto meno numerose delle emozioni, del sentire profondo di cui siamo capaci. Ed allora vorrei cercare di spiegare quello che “Verrà l’inverno” di Francesca Schipa e Maria Paola Tocci mi ha fatto provare. Storia, stile, trama, in questo caso vengono dopo. Una connessione, questo ho provato, intima, violenta, io sono Emilie, protagonista di questo romanzo, e non lo sono, allo stesso tempo.
Protagonista non personaggio, poiché Emilie è esistita davvero. Le autrici si sono assunte il compito, oltremodo meritevole, di togliere la polvere che l’oblio sembrava averle sparso sulle vesti sgargianti, su quello che fu. Emilie, nata nei primi anni del XVIII secolo, fu una persona che definire anticonformista è riduttivo. Studiosa di matematica, fisica e filosofia, sfidò il primato non solo del sistema Cartesiano e del Newtonianismo, ma anche quello che nelle scienze era di coloro nati del sesso giusto. La gonna era considerata il confine oltre il quale nessuna dama doveva spingersi, la ruota formata dalle balze il muro entro il quale il gentil sesso doveva piroettare e sorridere, nulla più. Emilie invece aveva fame, e sete, di sapere, di conoscenza, d’amore. L’amore era per lei tutto, la passione il suo motore, del resto non le importava. L’amore per le scienze, prima ancora che quello per i suoi compagni.
La tentazione di affibbiarle l’aggettivo moderna è forte, difficile non cedervi, ma lei non lo era, era molto più che contemporanea. Fa rabbia leggere della sua vita e rendersi conto che tanto ancora deve cambiare. Affermava con forza la sua femminilità, con tutti i gioielli, i nastri, i lustrini e le scollature che poteva, allo stesso modo difendeva le sue idee, la sua voglia di imparare, analizzare, sviluppare teorie, il poter essere considerata pari da quelli da cui era diversa, non certo inferiore. Ancora adesso alle donne non sono perdonate le frivolezze che invece si tollerano negli uomini, se desiderano essere considerate alla loro altezza. Emilie eccelleva nientemeno che in materie che, ancora adesso, sono considerate presidio dei maschi, come se nel nostro cervello ci fosse uno strano congegno che ci impedisce di far di conto, come se l’utero fosse d’ostacolo per eccellere in alcuni campi. L’utero di Emilie le era si d’impaccio, non accettava la maternità, piuttosto la subiva. Non temeva gli scandali, cercava di limitarne la portata solo per gratitudine nei confronti del marito, il quale, sempre le rese possibile lo studio e, le permise, di vivere la sua vita come preferiva. Screditando il suo comportamento con gli uomini tentavano di screditare il suo lavoro. Tre secoli, ed ancora siamo li.
La storia indubbiamente non le ha riconosciuto il giusto tributo. Non solo perché non le ha riconosciuto adeguati meriti scientifici ma anche perché ha voluto ricordare di lei solo la sua relazione amorosa con, nientemeno che, il grande Voltaire. Emilie non era oggetto sessuale del filosofo, né statica musa ispiratrice, era una studiosa verso la quale egli nutriva profonda stima, non fu fragile femmina sorretta dal concubino, ma anzi, lo salvò più volte dalla prigione.
Una scrittura raffinata ed elegante che si fa invece quasi privata, e rende la storia di una dama francese quella di un’ava, o almeno di quella che mi piacerebbe fosse la mia. Le quattro mani che hanno partorito il romanzo, una biofiction si potrebbe definire, hanno con un’operazione maieutica portato alla luce la sua storia. Partendo da pochissimi carteggi, hanno ricostruito la maggior parte di quelli presenti nel libro con un poderoso esercizio d’immaginazione, circostanza che da sola non avrei intuito, unendo il talento ad un lavoro di ben quattro anni. Verosimiglianza e vero hanno dunque pari portata nel testo, e stesso potere di suggestione. Attenzione però, questo non è un libro per signore, è deliziosamente fruibile da chiunque ammiri il coraggio, l’ingegno, l’intelligenza, senza differenza di genere. Nella speranza che se una storia di donne val la pena essere raccontata non vi sia un discrimine operante tra lettore e lettrici, ma tra anime.
Non chiamatela più l’amante di Voltaire, fareste un torto ad entrambi. Lei era Gabrielle-Emilie Le Tonnelier de Breteuil, marchesa du Châtelet, per me Emilie. Dopo aver letto la sua storia, credetemi, la chiamerete con confidenza anche voi.