Abbiamo costante bisogno di essere osservati, il voyerismo è una scelta, passiva o attiva, comunque generalizzata. L’azione ha bisogno costante di mostrarsi e dimostrarsi, nessun uomo è un’isola, bensì un intero palinsesto. Viviamo un Grande Fratello amplificato, più Orwelliano che Endemoliano. Foto, ricordi, pensieri e spostamenti, tutto viaggia in rete, attraverso la messaggistica istantanea, la solitudine è un male non solo nella sua forma estrema, lo è sempre e comunque. Inutile costruirsi un’immagine eroica, sfidare social network, dichiararsi immuni dal fascino dell’esserci a tutti i costi. Il mondo non ci chiede più una scelta tra essere e apparire, ma tra essere ed esistere, esisti solo se qualcuno ti guarda, in barba a tutte le elucubrazioni sugli alberi che cadono nella foresta.
Paolo Taggi lo sa, autore televisivo di successo non fa moralismi, racconta in “Kentucky va in tv” una storia improbabile eppure reale, la storia universale del mondo occidentale. I protagonisti di questo romanzo hanno firmato un accordo segreto con la madre di tutti i mezzi di comunicazione, l’autoritaria matriarca che rende il verosimile più invitante del vero, la tv. Vivranno in un perenne programma televisivo ma senza saperlo, saranno persone televisive non personaggi, costruiranno il loro nucleo familiare attraverso un casting per rendersi più attraenti rispetto alle altre famiglie in corsa. Il premio sarà una vita svelata e resa più fedele a se stessa perché alla mercè di tutti. Li spiano mille occhi, cinquecento persone, tra tutti il più importante, l’occhio della casalinga di Voghera, orba per l’esplosione di una caffettiera. Il baratto consiste nel permettere alla tv di fagocitare le loro esistenze per avere in cambio una presenza costante, una spada di Damocle che gli regali l’imprevedibilità della fiction e del telecomando.
Poetico, irriverente, pensato come un programma televisivo con piani sequenza e cambi d’inquadratura, questo è un libro trascinante. Le storie s’intrecciano come in una telenovela argentina, l’amore non riscatta ma delude come in un banalissimo talk show. Nell’assenza di un imperativo etico ci si costringe alla riflessione. A quante conversazione inutili abbiamo dedicato il nostro tempo in seguito ad un’apparizione televisiva altrui, una storia catturata dal commentatore di turno? È la tv a rubarci il tempo o siamo noi che a braccia alzate glielo doniamo come in una banalissima resa?
I capitoli corredati da colonna sonora e titoli, da caselle del gioco dell’oca, intrappolano. La distrazione è severamente punita, forse un po’ troppo. Il discorso che si aggroviglia su se stesso non lascia pause e respiro, alle volte ci si sente soffocare. Barbara, Marco, Luca, Tommy e tutti gli altri paiono essere spinti da un vento infernale eppure restare accomodati sul divano, la tv li guarda e loro guardano la tv. Li imbroglia uno struzzo cattivo, Kentucky Fried Chicken che ha ingoiato il loro preziosissimo Gronchi rosa, tentato di avvelenarli, rubato il lenzuolino con il nome del giorno in corso, ucciso la sua compagna assassina ed è sopravvissuto ad un suicidio riuscito. La trama è densa e non c’è pubblicità.
Da bambina ero terrorizzata da uno scheletro che minacciava di punire chi avesse cambiato canale durante la pubblicità. I miei genitori puntualmente lo facevano. Ecco, questo è un mio consiglio per gli acquisti, se non lo leggerete, Moccia verrà a vivere a casa vostra. Stacco, sigla, titoli di coda.