Arbusta iuvant humilesque myricae
È un verso dell’amato Virgilio (ma il poeta antico diceva: Non omnes arbusta iuvant humilesque myricae) a dare il titolo alla più importante raccolta poetica di Giovanni Pascoli, una delle voci più calde che la poesia italiana ci abbia mai regalato.
Nato a San Mauro di Romagna nel 1855, vessato durante l’infanzia da troppe sventure familiari, amico di Carducci e D’Annunzio (ma quanto distante da quest’ultimo per carattere e stile di vita!), Pascoli incarna la moderna poesia italiana “pura” meglio di chiunque altro, ultimo baluardo dell’estetica classicista, eppur già avicino al Simbolismo di matrice europea.
Figli di un animo schivo e solitario, perennemente alla triste ricerca di qualcosa che non c’è più, i suoi versi rappresentano certamente un unicum nella poesia italiana di fine Ottocento.
Il nome della celebre silloge (che vede la sua prima edizione nel 1891, ma ne conosce numerose successive) è quanto mai esplicativo: fa riferimento alle tamerici, e ad esse è associato l’aggettivo “umili”. Si tratta, dunque, di una poesia di breve respiro, estremamente semplice (soprattutto nei contenuti e nel linguaggio più che nella forma).
Eppure proprio nella semplicità (come spesso accade nella vita) risiedono le cose più belle. La poesia di Giovanni Pascoli è quella che comunemente si avvicina allo standard dell’idea che di essa ha la maggior parte delle persone, anche quelle lontane – sia per conoscenza storica sia per ispirazione – da questo straordinario universo. Un universo capace di cantare le cose più semplici, come la natura e il canto degli uccelli (ed uno dei più famosi componimenti è L’assiuolo, che contiene anche uno degli esempi più riusciti di una figura retorica molto presente in Pascoli, l’onomatopea, con quel chiù che riproduce il verso dell’uccello).
Ma in Myricae non c’ è solo idillio. Anzi, diremmo tutt’altro. Costante è il richiamo ai defunti, segno tangibile di quei lutti che hanno colpito e segnato l’adolescenza del poeta, e quasi ossessivo risulta il ricordo della madre e del padre. Emblematici, a tal proposito, le poesie X agosto, Il giorno dei morti e Il bacio del morto.
Le immagini della natura viva e di coloro che non ci sono più, e con i quali risulta impossibile stabilire una comunicazione, si intrecciano a formare un mondo onirico, ricco di fascino e mistero.
È quel mondo che solo Giovanni Pascoli, il poeta italiano teorico del “fanciullino”, riesce a dipingere con eccelsa maestria.