Scosso dalla moglie, con una strappata rabbiosa al braccio, springò dal sonno anche quella notte, il povero signor Anselmo. -Tu ridi! Stordito e col naso un pò fischiante per l’ansito del soprassalto inghiottì; poi disse aggrondato: Anche …perdio…anche questa notte?
Appartenente alla raccolta Novelle per un anno Tu ridi è stata pubblicata sul Corriere della Sera nel 1912; è una novella coniugale dove i protagonisti sono il signor Anselmo e sua moglie; dei due coniugi si sa ben poco: di età avanzata, di condizioni economiche modeste, vincolati da una situazione familiare pesante aggravata dalla morte del loro unico figlio e dall’impegno di crescere le cinque nipotine abbandonate dalla madre.
La gelosia della moglie è assurda: la donna non riesce a sopportare l’idea che ogni notte suo marito rida, di una risata cordiale, grossa, rumorosa…quasi di felicità.
Accecata dalla mancata possibilità di conoscere il motivo di quella risata, sveglia l’uomo ogni notte, infuriandosi e inveendo contro di lui come se fosse responsabile di chissà quale misfatto.
Teme la donna i sogni del marito, la sua felicità notturna, i suoi pensieri…chissà dov’è chissà con chi, lì in quel posto dove lei non può arrivare, che non può conoscere, che non può controllare.
Certo la moglie del signor Anselmo è esagerata nella sua reazione, isterica in alcuni momenti ma non è forse vero che non si possono conoscere i sogni degli altri e di questo si può aver paura?
Cosa desidera il marito? Per cosa ride? Cosa vive nel mondo di Morfeo?
Impossibile a sapersi…
Il protagonista della novella cerca allora una soluzione al suo problema, al suo riso; stanco di essere svegliato ogni notte dalle urla della moglie va da un medico, convinto che il suo riso sia la base di qualche malattia: lui non ricorda cosa sogna, crede di non sognare per nulla addirittura e dunque non trova ragione alla sua allegria notturna.
-Eh non creda!Così le pare ma lei sogna; é positivo; soltanto non serba il ricordo dei sogni perchè ha il sonno profondo. Normalmente gliel’ho spiegato noi ci ricordiamo soltanto dei sogni che facciamo quando i veli, dirò così, del sonno si siano alquanto diradati. Lei sogna; sogna cose liete e ride.
Una consolazione dunque per il signor Anselmo, se pur magra: almeno nel sogno lui è felice; di notte, quando si abbandona a se stesso, quando tutto è lontano e le preoccupazioni non gli mordono l’anima…lui è felice, certo non ricorda ma il solo fatto di essere felice, anche senza consapevolezza, lo ristorava e lo compensava del dover l’indomani sopportare gli affanni e le avversità della sorte.
L’illusione di una gioia inconsapevole dura poco: nella parte conclusiva della novella, l’uomo ricorda uno dei suoi sogni, uno di quelli che tanto gli aveva suscitato ilarità: nulla di più di una patetica scena di ufficio e di uno storpio ridicolizzato.
Dunque di questo rideva? Questa era la sua felicità?
All’iniziale delusione si sostituisce una considerazione filosofica: nella sua situazione, con tutti i mali che doveva affrontare ridere di cose stupide era certamente l’unico modo per farlo.
Come avrebbe potuto ridere altrimenti?