Il mare non fa mai doni se non duri colpi e qualche volta un’occasione di sentirsi forti, ora io non so molto del mare ma so che qui è così e quanto importi nella vita non già di essere forti ma di sentirsi forti, di essersi misurati almeno una volta, di essersi trovati almeno una volta nella condizione umana più antica, soli davanti alla pietra cieca e sorda senza altri aiuti che le proprie mani e la propria testa.
Primo Levi
Il padre fondatore del giornalismo moderno, Daniel Defoe vive a cavallo tra il ‘600 e il ‘700 nell’Inghilterra mercantile, puritana, neoimperiale. Fondatore di giornali celebri, domina tutta la scena dell’editoria di quegli anni, battendosi per la libertà di stampa, smentendo tutte le retoriche chi girano attorno alla stessa libertà di stampa che difende, mostrando e vivendo tutto il bene e tutto il male che il giornalismo contiene e che in seguito conterrà sempre di più. La sua vita ha mescolato tutto ed il contrario di tutto: pastore presbiteriano mancato, commerciante fallito, fondatore dell’importante testata giornalistica Review, detenuto più volte per debiti e delitti d’opinione, animatore del dissenso contro la Chiesa d’Inghilterra, Defoe è l’eroe delle nuove idee: riforme, libero commercio, tolleranza, nuovi piani per il sistema bancario vigente, assiduo riformatore del parlamentarismo nascente. Poi a sessant’anni si lascia dietro alle spalle una vita di metamorfosi, di maschere, di travestimenti, e diventa scrittore a tempo pieno, lanciando stelle nel firmamento della letteratura: Moll Flanders, Lady Roxana, ed appunto Robinson Crusoe.
Robinson Crusoe è un’opera capitale della letteratura moderna, uno dei libri più belli al mondo. La trama è semplice e lineare: un giovane marinaio fa naufragio, si salva raggiungendo un’isola deserta , vive in solitudine per ben ventiquattro anni, per altri tre la dividerà con il selvaggio Venerdì, tornando alla fine in patria dopo innumerevoli circostanze avventurose.
Questo è tutto, se non il fatto che davvero tutto o quasi è stato detto nel corso dei secoli: da Kant e da Marx, da Pope a Virginia Woolf, da Poe e da Coleridge, da De Quincey a Joyce, da Rousseau a Camus passando per Dickens. Insomma un libro universale, tradotto in tre secoli quanto la Bibbia, di cui le ragioni di questa universalità appartengono alle dimensioni filologiche e ideologiche di ogni lettura interpretativa e di ogni epoca.
Certamente Rousseau ha contribuito a fare di Robinson il personaggio chiave del rapporto tra individuo e società moderna: “il più felice trattato sull’educazione naturale”; Kant invece va ancora più in la, definendo Robinson un simbolo dell’etica progressista: uomo nostalgico di un’impossibile ritorno alla vita naturale, ma conscio di aver messo in moto un processo di civilizzazione impedendogli di entrare in un primigenio stato d’innocenza, consapevole che l’innocenza non può bastargli; per Marx invece Robinson ha tutte le caratteristiche del borghese del ‘700: uomo che crede nella divina Provvidenza, nella “mano invisibile”, e nel processo produttivo, come se una società primitiva fosse uguale a quella moderna, dimostrando invece che anche un uomo solo agisce all’interno di una società nella quale ogni rapporto sociale collude con la natura. Insomma nell’isola deserta – da lui definita Isola della disperazione – Robinson diventa imprenditore di se stesso:
salva dal naufragio orologio, libro mastro, penna e calamaio, e comincia da buon inglese a tenere la contabilità della vita, persino della Provvidenza.
Ma al di la di questi pilastri interpretativi, Robinson resta prima di tutto un grande capolavoro della letteratura di viaggio, punto d’incrocio di quella letteratura che nasce tra l’Europa rinascimentale che da nomi nuovi ai continenti, alle piante, ai popoli, agli animali, e l’Inghilterra che alimenta l’immaginario di tale letteratura col colossale rapporto che va cementandosi quando entra in contatto con l’America, quel “nuovo mondo” attraverso cui espanderà il proprio potere, non solo coloniale ma anche culturale.
Poi Robinson è anche un poema epico moderno. Riprendendo moltissimi temi omerici, li allaccia al romanzo esotico imperniato sul culto della vita primitiva: Robinson è l’eterno Ulisse, eterno viaggiatore in fuga da se stesso trasferito su sfondo atlantico.
Con le sue tematiche antischiaviste può essere considerato anche un romanzo filosofico. È una sorta di riciclato di vari filoni narrativi, da quelli di stampo pedagogico alle celebri biografie morali del ‘600, costruendo una delle più alte allegorie del dramma cristiano, anticipando caratteristiche che saranno predominanti nelle opere di Hawthorne e di Melville. Secondo Joyce è un’allegoria della britannica conquista del mondo, che nel libro vengono espresse tutte le sue contraddizioni: schiavismo e antischiavismo, civiltà e regresso.
Robinson è anche il grande romanzo giallo del mondo, come afferma Poe: un poema della natura che procede per fughe e nascondigli, intrighi, colpi di scena, misteri da indagare: un uomo in fuga, che si considera salvato dalla Provvidenza, deve comunque in ogni caso lottare, riconoscendo che la sua salvezza sta anche nella guerra, nella violenza, nell’omicidio.
Ma Robinson è anche encomiabile rappresentazione dell’uomo “economico”, dei suoi drammi e della dialettica materialismo/religione che lo tormenta: un cristiano che si afferma come individuo perché crede liberamente in Dio, ma anche un cristiano che si tormenta durante le sue introspezioni sui dilemmi esistenziali della Riforma; l’uomo del mercantilismo evoluto, alla vigilia dell’industrializzazione, che si tormenta tra due dimensioni: la conquista planetaria e la vita elementare, il rischio dell’avventura e l’ideale della vita media, la democrazia e la restaurazione; naufrago che sogna il benessere medio e lo fa con le “armi del progresso”; colono e colonialista dell’isola, felice di sentirsi capo di un’organizzazione minima creata da lui stesso. Robinson è religione della tecnica contro la religione della Provvidenza, religione del progresso scientifico contro la fatalità del Destino, religione dell’ingegno e del coraggio contro la coscienza dei limiti del genere umano.
Robinson è Adamo senza Eva e senza Paradiso Terrestre, il Sisifo moderno, un Ulisse ridotto all’osso: non ha compagni, nessuna Circe e nessuna Penelope che l’aspetta, non lotta contro Polifemo, non viaggia, non esplora, non si sposta per il mondo. Robinson è il mito della solitudine di ciascuno, dell’uomo che continuamente cade, che si rialza, e che cade nuovamente. Perché sa che l’unica cosa che rende l’uomo immortale è la sua grande forza di volontà, la sua reazione contro il mondo, la sua voglia interminabile di cercare una risposta.
Robinson Crusoe non è morto, perché lui è il futuro. Perché lui è qui.