Sui cancelli dei lager nazisti i condannati alla prigionia crudele dei tedeschi sovente trovavano impressa una scritta che recitava, come il titolo di un famoso album degli Area: “Arbeit Macht Frei”, il lavoro rende liberi.
Forse in nessun altra opera del ‘900 come Se questo e un uomo quella dell’olocausto viene rappresentata come esperienza infernale e assoluta, nel quale ogni simbolismo e retaggio retorico viene spazzato via e dissacrato con fervida e dolorosa scrittura, figlia di un’esperienza non solo vissuta ma interiorizzata. Se questo è un uomo non è libertà, non è canto d’amore per la vita, ma desolante supplica di essa, desiderio martirizzato e deteriorato.
Al di la di cosa sia diventato per la cultura popolare l’antisemitismo durante la seconda guerra mondiale, che posto occupa nella vasta mitologia della storia dell’umanità e cosa abbia catalizzato nell‘immaginario collettivo negli anni avvenire, l’esperienza di Primo Levi, scrittore italiano di origine ebraiche, come testimone ed interprete della vicenda più mitizzata del secolo scorso, occupa un posto di primo ordine e di rilevante importanza non solo nella cultura italiana ma dell’intera cultura europea, e tassello indispensabile di quel grande archivio della memoria che cerca, con tanta di quella compassione, di assurgersi a monito per tutto quel tempo che, inetti, ci resta ancora da vivere.
Nonostante il racconto sia particolarmente aspro e drammatico, emergono una grande ricchezza di sentimenti, di gesti, di azioni capaci di riaffermare la dignità dell’uomo.
Uno dei capitoli più famosi del romanzo, e nel quale credo sia racchiuso l’intero significato dell’opera, è l’undicesimo, dedicato al XXVI canto dell’Inferno di Dante, il canto di Ulisse.
Durante un’insperata ora di libertà, Primo Levi e un suo giovane amico originario della regione francese di Alsazia, da lui chiamato Pikolo, hanno la possibilità di parlarsi, e di raccontare l’uno all’altro ciò che pensano sia più importante di sé e del proprio mondo.
Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. […] …Chi è Dante. Che cos’è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia.
Primo Levi tenta di ricordare disperatamente i versi di Dante, e mentre cerca di raccontare, di tradurre e spiegare i versi, si rende conto che la figura di Ulisse, la sua meravigliosa statura simbolica, che all’inferno ha il coraggio e la forza di ricordare agli uomini quale sia in realtà la loro vera natura, di non “viver come bruti” ma seguire “virtute e canoscenza”, riguarda anche lui e Pikolo, e tutti gli uomini che come loro soffrono. Che, come dice Primo Levi, sono “in travaglio”.
Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi prega di ripetere… O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.
Quella famosa terzina dantesca acquista un valore speciale per Primo: nei lager si vive come “bruti”, la “semenza” umana, le loro origini, l’encomiabile essenza degli uomini, è continuamente calpestata, e virtù e conoscenza sono delegate a rari ed improvvisi attimi di pace. Più fortuiti per divina provvidenza che cercati.
Ecco allora da dove nasce un romanzo di così rarefatta quanto superba importanza come Se questo è un uomo: vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo della propria esistenza. Ma solo chi ha provato il morso di tale esperienza potrà dire, ad occhi chiusi, al mondo intero di essersi avvicinato, più di tutti, al senso estremo ed ineffabile della vita.