[credits: rotten969]
Di ognuno dei mondi in cui abbiamo fatto incursione conserviamo molecole di ricordi – aree di immagini e pensieri entrate ormai metabolicamente a fare parte di noi. La vita è abbastanza lunga perché siano tanti, quei mondi – o almeno, molti più di quanti ci aspetteremmo, se pensassimo di metterli in fila.
E proprio qua viene il bello: in fila, quei mondi, non ci potrebbero mai stare. Contigui, complementari o semplicemente affini per qualche inespressa tortuosità di sangue, essi una volta metabolizzati si impastano fra loro al nostro interno e diventano monosostanza del nostro sentire. Tracciare confini – sulla terra o nell’opinione pubblica come nelle pulsioni delle viscere – è sempre difficile e scarsamente opportuno.
La vita è contaminazione.
Così, amando da un lato le culture lusofone e dall’altro Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (libro davvero mai abbastanza letto e metabolizzato; chiaroveggente e per questo a disagio nella sua epoca autocelebrativa, e oggi di un’attualità che lascia senza fiato), ho sempre immaginato Don Fabrizio Salina ammorbato da una forma di saudade – la malinconia lirica e struggente di chi parte, per nave o per metafora; e di chi resta, per amore o per forza, a contemplare un’assenza, oppure il disgregarsi del passato…
Amo lo scanzonato disincanto che guizza nell’animo del vecchio Principe – consapevole di appartenere a un mondo ormai in declino, al quale aderisce per casta e per vissuto lasciandone però sempre un lembo sospeso: l’ironia con cui sa guardare le cose. C’è un misterioso distacco prospettico nello sguardo che il vecchio leone posa su quel mondo – che, come inevitabilmente succede a tutti i mondi, farà il giro su se stesso e infine si riporterà tale e quale al punto di partenza. Questo non lo sa nessuno – o forse invece lo sanno tutti, e non si dice (che poi è lo stesso). Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Don Fabrizio è ossequioso alle forme e al tempo stesso irriverente come il bambino di fronte al re nudo. È la coscienza lacerata dell’uomo novecentesco, incarnatasi per errore un secolo prima… è la malinconia portoghese dell’assenza, è la storia dalla quale gli uomini non imparano mai. Eccoli lì che si contaminano, i mondi, si fondono insieme e vorticano come la bella Angelica al centro del salone delle feste – astuto e ignaro strumento del destino.