“Io le parlo co’l cuore su le labbra, e sento dentro di me una commozione strana e vivissima, e mi trema la mano nel vergar queste righe. Io voglio seguire le sue orme: voglio anch’io combattere coraggiosamente per questa scuola che chiamano nuova, e che è destinata a vedere trionfi ben diversi da quelli della chiesa e della scuola di Manzoni; anch’io mi sento nel cervello una scintilla di genio battagliero, che mi scuote tutte le fibre, e mi mette nell’anima una smania tormentosa di gloria e di pugne; anch’io voglio consacrare all’arte vera i baleni più fulgidi del mio ingegno, le forze più potenti della mia vita, i palpiti più santi del mio cuore, i miei sogni d’oro, le mie aspirazioni giovanili, le tremende amarezze, le gioie supreme… E voglio combattere al suo fianco, o Poeta! Ma dove mi trasporta l’ardore? Mi perdoni Signore, e pensi che ho sedici anni e che son nato sotto il sole degli Abruzzi”.
Così si presentava un giovanissimo Gabriele D’Annunzio in una lettera (1879) all’idolatrato Giosuè Carducci: un giovane ispirato e sognatore, figlio di una terra solitaria e schiva, ben lontana dai fasti dei raffinati circoli letterari cittadini, ma abbacinato dalla luce immortale della poesia tanto da desiderare di profondere in quest’arte ogni singola stilla di vitalità. In quest’appassionata, cocente dichiarazione di amore intellettuale si rintracciano già, in nuce, quelle che saranno le caratteristiche distintive della poetica dannunziana, che successivamente si affrancherà dall’idealizzazione del “troppo borghese” Carducci: l’esigenza, sottesa al clima culturale – e non solo – italiano di scalzarsi dai classicismi romantici di inizio Ottocento, esigenza di cui il “Vate” D’Annunzio fu strenuo sostenitore; il ritorno “decadente” a un edonismo sfrenato, declinato, all’interno della poetica dannunziana, nella ricerca di un “piacere” dalle valenze puramente estetiche, che se da un lato tenta di ricucire lo strappo illuministico creatosi tra uomo e natura, dall’altro sfida continuamente i limiti di questa perfetta osmosi, esigendone la trasformazione in simbiosi.
La relazione di interscambio costante tra vita e arte, in questo caso la letteratura, cessa di esistere nella poetica dannunziana, nella misura in cui arte e vita vengono a sovrapporsi l’una all’altra: vivere è un’arte – di cui D’Annunzio sarà illuminato celebratore – e l’arte ha senso solo in quanto immediatamente autoreferenziale, rivolta esclusivamente a se stessa, come puro esercizio estetico. Ugualmente, la vita stessa dell’artista si trasforma in un’opera d’arte: egli è allo stesso tempo artefice e oggetto della sua stessa arte, che si esprime innanzitutto nell’atto di vivere. E il giovane D’Annunzio non tarderà a trasformare la sua stessa vita in un romanzo, avendo compreso sin dall’adolescenza l’oscuro legame che unisce il successo di uno scrittore alla fama delle sue gesta più che alla qualità delle sue opere: pubblicata una prima raccolta di poesie a soli sedici anni, grazie ai finanziamenti paterni, non esiterà, per aumentarne le vendite, a far circolare – per poi smentirla in seguito – la falsa voce della propria morte. Già negli anni del liceo, Gabriele D’Annunzio inizia la consapevole, scaltra mitizzazione di se stesso. Quando arriva a Roma (1881) per iscriversi alla Facoltà di Lettere, il suo nome è già leggenda: si sussurra a mezza voce tra i corridoi dell’Università e nei più raffinati salotti romani, che non tarderanno ad aprirgli le porte.
Il successo letterario arriva proprio al culmine di quel decennio romano, che sarà altamente formativo per la poetica – e la personalità, che è lo stesso – dannunziana: “Il piacere” (1889) avrà un immediato successo di critica e di pubblico, consolidando la levatura letteraria del giovane, sfacciato poeta. Una celebrità che verrà incrementata negli anni dalle scelte – letterarie e di vita, sempre calcolate e opportuniste – dello scrittore: dalle sue innumerevoli, libertine relazioni, tra cui spicca quella con l’attrice Eleonora Duse (1897-1904), per la quale si cimentò nella scrittura teatrale, che terrà a lungo impegnata l’opinione pubblica affamata di pettegolezzi, alle scelte stilistiche e linguistiche spregiudicate e innovative – D’Annunzio sarà creatore di svariati neologismi, come l’italianizzazione della parola “sandwich” in “tramezzino”, o espressioni quali “folla oceanica” e “velivolo” –, dalle discutibili ideologie politiche che lo portarono a sostenere la guerra in Libia per sfociare poi nel fanatismo dell’impresa di Fiume (1919), alla condotta sregolata e piena di eccessi che lo spinse a un ritiro più o meno forzato in Francia (1910), dove rimase 5 anni allo scopo di sfuggire ai numerosi creditori, entrando in contatto coi poeti del Decadentismo Francese. Tutto nella vita di Gabriele D’Annunzio sarà proteso al raggiungimento di quell’ideale di Superomismo che gli ispirarono le letture giovanili di Nietzsche. Anche gli ultimi anni, quelli del ritiro voluto a Gardone Riviera, trascorreranno illuminati dalla luce del suo Ego gigantesco, narcisista e disinibito, megalomane e superbo: il Vittoriale degli Italiani, come successivamente verrà rinominata l’ultima dimora dannunziana, diventa negli anni un vero e proprio museo auto-celebrativo, forse l’unico luogo in cui lo spirito del poeta, che lì è sepolto, ha potuto trovare pace al termine di una vita consacrata alla ricerca della (im)perfezione “estetica” della Gloria eterna.