Quando parliamo di Thomas Mann parliamo di un mondo intero, suggestivo, affascinante, a tratti pericoloso. Certamente tutto da esplorare.
Un mondo che – raramente in modo così deciso – si riflette nelle grandi opere dello scrittore di Lubecca, per alcuni il più grande esponente della letteratura tedesca del XX secolo.
Tre sono le tappe principali del percorso del Thomas Mann narratore: I Buddenbrooks (1901), La montagna incantata (1924), Doctor Faustus (1947). Tre splendidi romanzi, tre capolavori della letteratura europea. Solo un’altra opera viene accostata a queste. Ma non si tratta di un poderoso romanzo, bensì di un agile e scorrevole racconto; il simbolo di un’epoca, il timbro indiscusso dello stile e del pensiero di Mann: Der Told in Venedig. Traduzione: La morte a Venezia. Siamo nel 1912.
Venezia, l’Italia. La polarità tipica dello scrittore tedesco è frutto delle sue origini: padre di freddo sangue teutonico, madre di origine brasiliana. Thomas avrebbe sempre vissuto nella scissione: da una parte lo spirito borghese e razionale, dall’altra l’arte, la musica, l’oblio. La morte.
Una Venezia affascinante, molto bizantineggiante ed esotica, fa da sfondo all’ultima avventura di Gustav Von Aschenbach, artista al culmine del successo internazionale. Una smaniosa voglia di “cose nuove” lo porta ad intraprendere un viaggio catartico nella laguna. È la città, oltre che di Thomas Mann, anche dell’amato Wagner, nonchè di Nietzsche. È la città che, con i suoi canali, le sue gondole e gli splendidi palazzi rinascimentali, fa da cornice perfetta all’amore omosessuale che lega il protagonista, Von Aschenbach, ad un fanciullo quattordicenne di origine polacca, Tadzio, in viaggio con la sua famiglia.
In un’atmosfera bohèmien e decadente si snoda la vicenda, interiore dapprima che esteriore, del protagonista. Incredibile la quantità di persone, luoghi e fatti che nel racconto hanno trovato trasfigurazione letteraria del vissuto. Thomas Mann era stato realmente a Venezia (insieme alla moglie) ed era rimasto fortemente affascinato da un ragazzino; anche alcune figure di commercianti, commediografi e gondolieri sono stati incontrati nella realtà – la fonte è costituita dai diari della moglie Katja. I rapporti omosessuali sono stati, comunque, una costante del Thomas uomo: marito e padre, ma affascinato dall’ignoto, dal diverso, dal proibito, che in lui si specchiava nella perfezione del corpo maschile.
La fluidità dello stile e la piacevolezza della lettura non oscurano il tema di fondo, ossia il conflitto insanabile tra “artista” e “borghese”, leitmotiv dell’opera dello scrittore tedesco, che aveva trovato un punto d’incontro in Tonio Kroger. Ma quella mediazione, ora, non è attuabile. Il borghese, razionale e del tutto “tedesco” Von Aschenbach aveva troppo a lungo represso l’altro polo del suo spirito. Ma il richiamo, stavolta, è troppo forte. L’amore omosessuale per Tadzio, mai consumato, risveglia lo spirito dionisiaco proprio dell’artista, che per tutta la vita vi aveva imposto quello apollineo della disciplina e dell’ordine.
Siamo nella culla del pensiero di una delle più grandi figure della letteratura mondiale. Siamo all’origine, al primigenio impulso di tutte le grandi opere di Thomas Mann.
Invano Von Aschenbach aveva tentato di indirizzare il motivo dell’attrazione efebica, squisitamente classico, nell’alveo dell’amor puro, platonico, ancora apollineo. Il sogno finale dello scittore, in preda ad una vera e propria estasi, non lascia dubbi: un’orgia dionisiaca, a tratti infernale, su cui campeggia il simbolo fallico, è la rivelazione dell’inconscio troppo a lungo represso.
Nel finale, la definitiva vittoria dell’arte (con tutto ciò che in Mann rappresenta) sulla forma: lo sguardo tra i due, Von Aschenbach e Tadzio, in riva al mare; il dito dell’efebo ad indicare quell’ “immensità ricca di promesse” che l’artista, nato a nuova vita, si prefigge di seguire; la caduta, infine, su di un fianco, gli occhi che si spengono nella morte.
Thanatos si è unito a Eros.