Maxence Fermine con la sua favolosa trilogia compie un viaggio, un percorso fantastico nelle emozioni umane attraverso tre colori non-colori. Ci si dovrebbe accostare con spirito lieve alla lettura di queste tre storie onde permettere alla poesia delle pagine di passare dalle stesse alla punta delle dita per arrivare infine all’anima.
Il bianco è il protagonista del primo onirico percorso, candida e leggera la “Neve”, come i passi di una funambola sospesa tra due montagne. Yuko, giovane poeta giapponese, figlio di un monaco, compone haiku, tre versi e diciannove sillabe precise di semplice perfezione. I suoi componimenti riescono a parlare solo della neve, puri e delicati sono però privi delle sfumature dei sentimenti. Per appropriarsi delle stesse il giovane poeta seguirà gli insegnamenti del maestro Saseki, ceco e tuttavia padrone delle arti e dei colori, innamorato da giovane di una bellissima europea, una funambola che per amore della sua passione per la vertigine diverrà per sempre solo una meravigliosa immagine racchiusa negli occhi ormai spenti di Saseki. Yuko troverà allora la felicità in un riflesso, bianco eppure di mille tinte.
Il “Violino nero” è il titolo del secondo libro, le passioni più scure ed un doloroso sortilegio invadono le vite dei protagonisti, votati all’arte ma dalla stessa imprigionati. Jhoannes Karelsky è un bambino prodigio, ammaliato dal suono di un violino decide di provare a convertire la sua vita in musica, la guerra si interporrà tra lui ed il suo desiderio. Ferito in battaglia sarà guarito dal prodigioso intervento di un’amazzone dalla voce incantata. Approdato al seguito di Napoleone nella culla dell’opera, Venezia ed un liutaio della scuola di Stradivari, Erasmus, creeranno una strana magia, una fascinazione oscura. Carla, amata prima nei sogni e poi nella realtà dal giovane liutaio ed un violino d’ebano daranno avvio al destino di Jhoannes, comporre una straordinaria opera inesistente.
Ed infine l’oro del miele, un sogno appassionato, una ricerca di ricchezza, la ricerca di un uomo, “L’apicultore”. Aurélien Rochefer destinato al commercio della lavanda sceglierà invece di dedicarsi dapprima alle arnie ed al raccolto dei frutti prelibati delle api per poi intraprendere una peregrinazione fantastica. Soffrendo il caldo e la sete Aurélien scoprirà quanto è più forte il desiderio di vivere che il piacere della vita stessa, come più forte è il bisogno di bere che il godimento derivante dall’appagamento dello stesso . L’Africa, il deserto ed il sogno di una donna color del miele, un’ape regina dapprima immaginaria e poi reale ma inafferrabile, saranno le tappe color oro del suo percorso.
La banalità per quanto in agguato non riesce a penetrare in questo pellegrinaggio, la lettura è piacevole e distensiva, la leggerezza è un concetto di forma e non di sostanza. La dimensione onirica appartiene ad un piano parallelo a quello reale ma le due rette miracolosamente si toccano, i protagonisti, tutti uomini, restano intrappolati nel desiderio ardente di donne che non hanno mai visto, o che sono solo sogni, finanche morte, ma la realtà si riappropria dell’amore e le dee diventano esistenti quasi per un fenomeno di transustanziazione. Il sogno che si fa carne.
Che sia un colore, che sia una donna, che sia un’ape, ogni uomo ha il diritto di scegliere per cosa vivere e così facendo trasformare la propria vita in qualcosa di leggendario, anche se solo per se stesso.