Per essere poeti bisogna tornare a una necessaria condizione di ingenuità.
E Giorgio Bassani è innanzitutto un poeta, un animo gentile e delicato, proteso verso la ricerca di un tempo perduto di atavica felicità, quel là e allora cui è impossibile fare ritorno, e che, proprio per questo suo carattere di irrealizzabilità, si veste del classico manto della nostalgia.
Nato a Bologna ma vissuto a Ferrara, città con la quale istaura un rapporto d’amorevole, esclusivo attaccamento, Giorgio Bassani (1916 – 2000) rappresenta forse, con le sue opere, l’ultimo, tardivo bastione di quell’epoca romantica destinata inevitabilmente a sfociare nell’Ermetismo poetico e nella letteratura Decadentista. Poeta prima di tutto, ma anche narratore e editore, poi bibliotecario e persino sceneggiatore, Giorgio Bassani nasce in un’epoca di conflitti, di discriminazione, di omicidi; conosce in prima persona la galera, per la sua segreta militanza antifascista, e vive sulla sua pelle le conseguenze delle leggi razziali contro gli ebrei, che gli impongono di pubblicare la sua prima opera, Una città di pianura, sotto pseudonimo. Un’epoca in cui la Storia, e – come sostiene Bassani – la stessa natura umana, fanno superbo sfoggio della propria capacità di mistificazione di se stesse, eruttando in tutta la loro distruttiva potenza mortifera: un’epoca che inevitabilmente segnerà il percorso letterario e poetico dell’autore, che negli anni si consolida sempre più saldamente intorno alle tematiche dell’ineluttabilità della Storia, del destino umano, della morte, esteriore, ma anche interiore, intesa come condizione di perduto benessere dell’intera umanità.
Laureatosi in Lettere nel 1939, anno in cui Hitler invadeva la Polonia dando inizio alla seconda Guerra Mondiale, Bassani è costretto pochi anni dopo (1943) a fuggire, prima verso Firenze, poi a Roma, dove trascorrerà il resto della sua vita: Roma è sicuramente la città degli incontri, quelli reali, con Marguerite Caetani, fondatrice della rivista letteraria “Botteghe Oscure” che inviterà Bassani a collaborare introducendolo nell’ambiente della critica letteraria; con Pasolini – incontrato (1953) alla redazione della rivista “Paragone” – e, più tardi, con Feltrinelli, per cui lavorerà come consulente e direttore editoriale; ma anche gli incontri “letterari”, con autori stranieri come Truman Capote e Boris Pasternak, coi nostrani Carlo Cassola, Italo Calvino, e col ripudiato “Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, che contribuirà tutti a far pubblicare e a far conoscere al grande pubblico, nonché l’“incontro” meritatissimo col premio Strega per Cinque Storie Ferraresi (1956). Ma è Ferrara la città, quella con la “C” maiuscola, la patria, l’unica e sola terra cui Giorgio Bassani resterà fedele a vita: se Roma è luogo di opportunità, Ferrara è la musa che ispira le composizioni del poeta, quella terra perduta che ritorna nel vagheggiamento dell’uomo che ha perso tutto, un moderno Ulisse alla deriva di una contemporaneità che gli è ostile e incomprensibile; ed è alla terra natia che il naufrago torna nell’immaginazione, quel luogo reale e tuttavia fantasmatico, che nella memoria assume caratteristiche proprie, e sganciandosi dalla realtà oggettiva va a costituire luogo d’elezione attorno al quale ruota l’intera costruzione narrativa delle opere di Bassani, quel “poema di Ferrara” che sottende l’implicita visione unitaria che l’autore ha dell’arte narrativa. Ferrara è pretesto per dimenticare la realtà e ricordare un mondo che non c’è più, o forse non c’è mai stato, ricostruendolo attraverso la proiezione di un proprio mondo interiore, sospeso tra presente e passato, che conferisce alle ambientazioni dei suoi racconti – prima fra tutte quel “giardino” in cui si consuma la storia della famiglia Finzi-Contini, e il tacito, inesplicato amore tra i due protagonisti – quella “vaga atmosfera di incantesimo, di sortilegio” (G.Manacorda). E la letteratura, costruita intorno al solidissimo perno dell’amore per la sua città, è altresì pretesto per indulgere nelle dolci, poeticamente feconde spire della nostalgia, per sfuggire alle brutture della vita, rifuggendo il realismo e rifugiandosi invece in quel lirismo, della poesia ma pure della prosa, che animerà anche la poetica di Eugenio Montale.
Autore molto spesso incompreso – come forse l’uomo Bassani si sentiva, essendo letterariamente molto vicino alla tematica della diversità e dell’esclusione, vissuta da ebreo e elaborata in romanzi come “Gli Occhiali d’Oro”, 1958, e “Dietro la Porta”, 1964) – tacciato d’essere obsoleto dalla critica progressista degli anni ’60, Giorgio Bassani gode di rinnovata fortuna negli anni ’70, grazie all’interessamento della critica d’oltreoceano: fu più volte chiamato a tenere lezioni in Canada e USA, fu vicepresidente RAI, riscosse gli onori della critica, ricevendo, tra gli altri, il Premio Viareggio (1962) per “Il Giardino dei Finzi-Contini” e il Premio Campiello (1968) per “L’Airone”. Negli ultimi anni si dedicò nuovamente all’amore giovanile per la poesia, pubblicando la raccolta comprensiva “In rima e senza” (1982), e alla revisione di tutte le sue opere maggiori, raccolte nel ciclo de “Il Romanzo di Ferrara”, a testimonianza dell’unitarietà della sua opera omnia. Giorgio Bassani morì il 13 Aprile del 2000, dopo una lunga malattia: e, passando a vita eterna, poté finalmente fare ritorno a Ferrara, la sua amata patria, dove fu sepolto – per suo esplicito volere – nel cimitero ebraico di via delle Vigne, a pochi passi da dove la sua malinconica, fiera immaginazione aveva collocato la maestosa cappella funebre dei Finzi-Contini.