Ed eccomi qui a scrivere. Di nuovo.
Finalmente, aggiungerei.
Ho sempre pensato di essere diverso ed invece, in fin dei conti non ero che me stesso.
Forse era proprio questo che mi rendeva così diverso da tutti gli altri.
Ho sempre pensato di essere diverso, o quantomeno strano, se per un attimo mi illudo di poter vedere le cose con gli occhi del mondo, e di scrutarlo, il mondo, con lo stesso sguardo degli uomini-bambino che in esso, come in una culla, ora piangono, si lamentano ed ora giocano, ridono, si divertono. Ecco, io non ero così.
Avevo da poco compiuto diciotto anni e mi sentivo per strani ragioni un giovane non comune, avanti in tante cose e molto indietro ed imbranato in tante altre. Quando mi relazionavo con gli altri ero spesso superbo e pieno di me ma altrettanto spesso mi sentivo, forse in virtù della mia essenza-illusione, solo, nauseato. In realtà non ho mai ben capito quale delle due forze forzasse l’altra, quale avesse trascinato e determinato l’altra: era la troppa fiducia in me stesso che mi portava a non fidarmi abbastanza degli altri, o era Lei, la solitudine, la dolce malinconia ad avermi ammaliato, ad avermi reso così cieco e masochista? Non l’ho mai capito. Sapevo tuttavia che mi era caro, forse necessario abbandonarmi alle mie stupide congetture, alle mie care letture, ai miei inutili pensieri, ai miei strani sogni. Ed era altrettanto necessario erigere intorno a me questo muro spaventosamente alto di barriere e di difese contro un mondo che vedeva le cose in una prospettiva diversa dalla mia. Lo erigevo io, sì, da solo, ed ogni mattone era un passo (in avanti o indietro nemmeno questo l’ho mai capito) verso la quiescenza e la serenità che solo la solitudine era in grado di donarmi.
Molto spesso mi ero considerato un genio, altre un mezzo matto. E le due cose, per la verità, andavano a braccetto. Molto spesso poi non riuscivo a partecipare alle gioie dei miei coetanei (che erano, loro sì, tanti uomini-bambino) e talvolta mi struggevo in rimproveri ed apprensioni, perché se da un lato poteva essere quanto mai vero che fossi egoista e superbo, dall’altro ero conscio del fatto che questo mi escludeva dal mondo che (mio malgrado) mi aveva partorito e che in fin dei conti, era mia madre.
Era evidente quindi, che fossi io, in questo mondo, il problema, o l’eccezione. Ma dovevo valutare: era il mondo che mi circondava diverso da me o ero io, più semplicemente estraneo a questo mondo? D’altro canto, gli uomini-bambino ed il mondo istesso avevano stampato su quel marcio viso quel patetico sorriso da ebete che tanto odiavo quanto invidiavo.
Ed ero io quindi il problema, io l’errore, io il mostro che andava pertanto soffocato, ucciso, sepolto, o quantomeno mascherato, se volevo vivere in quel mondo.
Osservavo ogni giorno quel vecchio, rugoso viso col sorriso da ebete e lo invidiavo. Lo invidiavo perché ero sicuro che quel viso fosse privo di una mente colma di idee zampillanti che lo portassero a struggersi l’anima per tentare invano di rispondere ai quesiti che tanto mi frastagliavano l’esistenza. Ma erravo. Ero semplicemente geloso perché avevano loro, gli uomini-bambino, raggiunto una felicità a me sconosciuta, tanto agognata; una felicità che mi sforzavo costantemente di ricreare in me, di plasmarla con le mie stesse mani. Ed ecco quindi perché ero così diverso dagli altri. Eppure, sapevo fare anch’io ciò che facevano loro, talvolta anche meglio. Sapevo, con un po’ di sano sforzo ed impegno diligente tradurre il greco ed il latino, comprendere il pensiero dei Kant e dei Nietzsche, sapevo scrivere versi e dipingere; tutto questo sapevo fare, ma non sapevo come tendere a quella dannata felicità che perennemente mi si sventolava dinanzi agli occhi e che perennemente, inconsciamente ed inutilmente volevo afferrare. Ero come ostacolato da una forza, nei miei confronti affettuosa ed apprensiva, ma forse anche un po’ maligna ed egoista che mi impediva di librarmi in volo, che mi sconsigliava e scongiurava vivamente di rivolgermi ad un Dio perché mi si donasse quella dolce e calda felicità che io potevo solo emulare dal mio freddo letto della ragione, avvolto nelle gelide coperte della mia amata quanto pericolosa solitudine.
A questa solenne ed oscura forza diedi il nome di Destino.
Ebbene, mi trovavo nel momento in cui credevo fermamente nel Destino: una forza apparentemente insensata ed insensibile certamente. E la odiavo sì, non sopportavo l’idea che ogni mio passo fosse manovrato dalla mano di un bastardo burattinaio che giocava coi suoi fili, tessendo la mia esistenza. Ciò nonostante però, non riuscivo a slegarmi, ero in catene. All’inizio mi opponevo, mi dimenavo con tutte le mie forze, ma ogni mio sforzo fu vano: la rabbia dovette cedere il posto al pianto, il vigore al dolore e all’odio. Lo odiavo, ma la cosa che più detestavo era la paura di essere destinato a diventare come lui, di seguire le sue orme, le orme di mio padre. Nel frattempo la mia vitalità si assopiva: mi ero lasciato convincere da quella severa e crude voce paterna che il libro della mia vita fosse scritto dalla mano del destino e che, in un modo o in un altro, sfogliando pian piano le pagine, aggiungendone, strappandone, riscrivendone, alla fine, nolens volens non avrei potuto in alcun modo cambiarne il finale (ed il lieto fine esiste solo nelle favole…).
D’un tratto, dalle oscure segrete della mia prigione un bagliore di luce attraversò le sbarre, squarciò il soffitto, dilaniò le pareti. Era la vita, ed era venuta a liberarmi.
Aveva il viso d’una fanciulla, dai capelli scuri e gli occhi chiari. Mi prese per mano e spalancò le porte del mio cuore, che io credevo sigillate.
– «Perché fai questo per me, Nemesi?», le domandai.
– «Perché mi hai chiesto aiuto», mi rispose.
– «Ti sbagli. Io non ho chiesto aiuto a nessuno», replicai.
– «Dalla tua bocca no, non sono uscite richieste di soccorso, ma il tuo cuore piangeva, la tua anima si contorceva dal dolore, urlava, implorava che qualcuno la liberasse, che qualcuno la salvasse». Mi sentii svuotare dentro.
– «Credimi, mio caro, nessuno in questo mondo vuol restare solo», aggiunse poi.
E fu in quel preciso istante che mi balenò un pensiero dolce e nuovo.
Io, proprio io che sino ad allora l’avevo evitato, malguardato, deriso e calpestato, alla fine, proprio io, ingenuamente, inaspettatamente e meravigliosamente l’avevo conosciuto, avevo conosciuto l’Amore.
Capii finalmente che non valeva più la pena di temere il mondo. Non ero più costretto ad affrontarlo da solo. Capii che era giunto il tempo di rinunciare a quel demone della mia giovinezza, quel demone che avevo invocato così tante volte da temere che un giorno mi potesse soffocare brutalmente nel sonno, che si impossessasse di me, della mia vita e che imprigionasse il mio animo, già di per sé in catene, e che gettasse la chiave della mia salvezza negli abissi dell’eternità, condannandomi all’oblio. Un giorno dovetti affrontarlo.
Aveva il mio stesso viso, i miei stessi lineamenti, i miei stessi capelli scuri, i miei stessi occhi verdi, ma lo sguardo… lo sguardo era ben diverso. Mi osservava. Mi scrutava come un lupo guarda l’agnello, il suo agnello, la sua preda, il suo pasto. Avevo paura. Come non mai.
Guardavo ora me stesso allo specchio: quella patina vetrosa era riuscita a scindere per qualche strana ragione e attraverso mezzi a me tutt’ora sconosciuti (“era merito del Destino”, pensai) i miei due contrastanti mondi, le mie due essenze. Mi aveva esso privato dell’involucro esterno in cui fin ad allora avevo dimorato, mi aveva privato della mia scorza più dura e resistente e mi aveva lasciato così, in balia del male e delle sofferenze del mondo, preoccupandosi di intrappolare dentro di sé quell’essere immondo che continuava a fissarmi dall’altra parte. Non avevo più difese, ero ora costretto a fronteggiare la causa delle mie continue barriere.
Capii: non avevo per anni protetto la parte tenera di me, la parte vera, pura, fanciulla, come credevo; mi ero per anni preoccupato di occultare quel mostro che io stesso avevo creato, e che ora mi fissava, mi fissava come se si aspettasse da me chi sa che cosa, come se anzi sapesse cosa avrei detto o fatto di lì a pochi istanti.
– «Cosa vuoi?», gli domandai dopo aver tentato invano di sciogliere, in gola, un nodo intessuto di paura e tensione. Quell’essere immondo rise, rise di me. «Cosa vuoi? Tu che mi guardi come fossi io la preda e tu il predatore?» aggiunsi poi.
– «Cosa vuoi tu, semmai, che mi guardi come se mi vedessi per la prima volta, come se non conoscessi il mio volto, il tuo volto!?». Mi pietrificò. «Eppure», aggiunse, «per anni hai fatto affidamento su di me, per anni hai chiesto il mio aiuto per sopravvivere in questo sporco mondo. Vuoi forse ora privarti di me? Ti illudi di poter vivere in questo mondo senza di me?», disse ridendo.
– «Si!», azzardai. In quel momento la risposta eruppe da me, come un vulcano in eruzione. Io stesso me ne meravigliai.
– «Sei uno sciocco! Senza di me non saresti nemmeno qui, ora. Pensaci, a chi credi di esserti rivolto ogni qual volta sei stato deluso, deriso, malmenato da questo mondo? A chi ti sei rivolto ogni qual volta hai visto questo mondo cadere a pezzi, sottrarti la gioventù, gli amici, i parenti, le persone a te care? Chi credi di aver alimentato con le tue stupide lacrime? Chi se non me?»
– «Non mi fai paura. Ti ho creato io. Ti ho creato io quando ne ho avuto inconsciamente bisogno. Ti ho creato io quando ho avuto il puerile bisogno di aggrapparmi a qualcosa (le tue sbarre) per vivere in questo mondo che mi limitavo a scrutare da una lurida prigione». Mi sentii sollevato. «Ora lo so», continuai, «ti ho creato io per sentirmi meno solo, per potermi rifugiare in un qualche luogo, anche nella tua lurida prigione, per non vivere in questo mondo, pur di non scoprire, questo mondo! Ti ho creato io, ed ora faccio a meno di te, perché la solitudine inevitabilmente cessa quanto il tuo oscuro sentiero interseca lo stesso, oscuro sentiero di una persona sola quanto te!»
– «Sei solo un illuso!», mi rimproverò ancora.
Continuava a fissarmi, avvolto da una tetra nube di fierezza e presunzione. Mi guardava fisso e mi sentivo penetrare attraverso la retina oculare e attraverso i padiglioni del mio cuore finché non udii i suoi passi sul pavimento del mio animo. A quel punto lo udii sghignazzare. Rabbrividii.
D’un tratto quel mostro disumano spalancò le fauci e digrignò i denti, estrasse gli artigli e fece a brandelli il suo volto, il mio volto. Con gli stessi artigli sporchi di sangue, del suo e del mio stesso sangue, sollevò il labbro superiore e sradicò le sue stesse zanne nere, una ad una.
In quel medesimo istante, mentre cercavo di razionalizzare l’orrore di quella visione, pensai tra me e me: “spero sia questo un sogno, così da riuscire a svegliarmi domani senza paure e senza dolori. Spero sia questo un sogno così da non illudermi di poter dimenticare ciò che ho visto e patito, ma sperando di non ricordare ciò che ho sognato”.
In quel medesimo istante, mi destai. (Ma dai meandri oscuri del mio animo, imprigionato ed in catene, quel demone rideva, rideva ancora, rideva di me).