Tenera è la notte può essere letto come un’esperienza psichiatrica, un’elaborazione semi – auto – biografica di un trauma, un resoconto di un martirio, o la sublimazione ed in un certo senso l’elaborazione delle proprie perdite e delle più stagnanti sconfitte.
Scritto in piena crisi economica – l’epoca per i posteri è stata definita “La grande depressione” – ed in pieno revival musicale, dove le orchestre di Duke Ellington e Glenn Miller stavano per ridefinire il ritmo di un decennio ed il G.S.A (l’acronimo personale del “Grande Sogno Americano”) portava ancora con sè i reumatismi della Grande Guerra, nel ’34 Francis Scott Fitzgerald diede alle stampe quello che oggi è artisticamente riconosciuto, alla stregua del Il grande Gatsby, il suo romanzo più importante, se non il più sofferto ed il più rappresentativo.
Nonostante Gatsby rimane la sua più celebrata e drammatica creazione, nel quale tocca picchi di liricità quasi del tutto sconosciuti alla stramaggioranza degli scrittori americani, il patema ed il calvario che porteranno alla genesi di Tenera è la notte sembrano siano forniti di quella autenticità che è sempre stata unica figlia fedele del talento artistico.
La storia ruota intorno al talentuoso psichiatra Dick Diver e alla sua bella moglie Nicole Warren, all’innamoramento del primo di Rosemary ed al crollo psichiatrico della seconda, ma sembra che l’autore voglia raccontarci invece, sotto altre spoglie e per vie traverse, la sublimazione artistica, e quindi in un certo senso la consapevolezza e la maturazione della propria dolente concezione del mondo.
Nicole è in realtà l’alter – ego di Zelda, moglie dell’autore. In quel periodo la donna, malata di schizofrenia, venne ricoverata più volte. Con la crisi economica del 1929, Scott dovette affrontare la conseguente crisi familiare, l’abuso sempre più frequente dell’alcool e cercare di vincere contro l’esaurirsi delle sue stesse forze psico – emotive. L’amalgamarsi di tutte queste esperienze porteranno alla creazione di Dick e delle sue contraddizioni, i suoi fallimenti ed il ritiro totale fino a scomparire nel nulla.
Nonostante la storia possa essere semplice a molti, forse addirittura banale e frivola, in verità cela un involucro familiare solo a chi è attento lettore di questo scrittore straordinario, oltre che narratore rarissimo. Nelle descrizioni dei volti, in queste presenze circondate da un’aura mistica, a tratti rarefatta ma mai scontata, come un quadro impressionista, una fila di personaggi mai consapevoli della propria miseria e della piccola e misera condotta delle loro esistenze svelano il temperamento dell’autore, la sua denuncia contro un mondo corrotto dal denaro e avido di se stesso, fatto di piccoli burattini che si prostituiscono moralmente – e forse anche fisicamente – per il denaro, facendosi sedurre e inghiottire dal potere economico.
È un tema tanto caro quanto prezioso a Fitzgerald. I suoi contemporanei non lo capirono perché tali argomenti venivano trattati in un modo quasi iconoclastico e retrograde, ed il linguaggio apportato sembra più figlio della cultura europea del secolo scorso che di un’ingerente controcultura avanguardista e sperimentale.
Questo monito che l’autore lancia, la denuncia del denaro come veleno che minaccia la libertà umana, è in realtà una sorta di appello che lui stesso provò sulla propria pelle: denigrato e allontanato da una giovane ragazza perché troppo povero, la scesa a compromessi scrivendo racconti di poco conto per guadagnarsi pochi spiccioli…
Ma è comunque in ogni caso tutto semplicemente riduttivo. La bellezza stilistica dell’opera sta nel suo contorcersi in un nodo strettissimo di sospensione temporale che non lascia tregua, e l’analisi introspettiva di ogni personaggio risplende così intensamente che quasi stupisce. Alcuni capitoli possono annoiare, o addirittura infastidire; altri ricordano invece la bellezza minimale di Hemingway, ed anticipa lo stile schietto ed irriverente di Salinger e la bellezza “intermittente” di Henry Miller. Senza contare il fatto che è precursore, non tanto nello stile quanto nello spirito, di gran parte della letteratura americana che sarebbe seguita soltanto a partire dagli anni ’50, un’epoca in cui il Capitalismo evolverà e si nasconderà nella paura invisibile della Guerra Fredda. Nonostante questa sia un’altra storia, Fitzgerald aveva visto bene e lontano nella sua audace quanto cinica visione dei rapporti umani. Fin troppo: morì nell’oscurità, povero e solo.