Avrei desiderato una donna, non per chiedere le sue carezze, ma per piangere sul suo seno. L’uomo è più profondo nell’amore, la donna nella tenerezza; si piange meglio sul seno di una donna….
Igino Ugo Tarchetti pubblica il suo romanzo Fosca, nel 1869; appartenente alla Scapigliatura milanese, Tarchetti affronta nel suo scritto una tematica importante: quella dell’amore e della morte.
Il confine non è così segnato, l’amore è duale, romantico da un lato, patologico, malato, tipicamente “scapigliato ” dall’altro.
Il protagonista è un giovane ufficiale, Giorgio che racconta in prima persona quanto ha vissuto cinque anni prima, l’incontro con due donne, Clara la prima, conosciuta a Milano con la quale comincia una laison d’amore romantica e perfetta, tanto nei ricordi inebrianti, quanto nelle carezze e gli sguardi scambiatisi con la donna.
Un amore perfetto, idilliaco, come lo scenario dove i due vivono e consumano la loro relazione, ostacolata solo dalla impossibilità di viversi totalmente a causa del matrimonio della donna che inevitabilmente impedisce al rapporto tra i due di diventare esclusivo.
Un insieme di ricordi, evanescenti in alcuni momenti, ricordi perfetti, o per sottolineare il divario tra le due donne, sani.
E’ Fosca però che dilania l’uomo, lei, la donna vampiro, che succhia la vita di Giorgio, paralizzato, inerme di fronte a lei.
Una cosa sovratutto contribuiva ad accrescere il mio dolore…il pensiero fisso, continuo, orrendo che quella donna volesse trascinarmi con sè nella tomba…il vederla già consunta, già incadaverita, abbracciarmi, avvinghiarmi, tenermi stretto sul suo seno durante quei suoi spasimi, era cosa che dava ogni giorno maggiore forza a questa fissazione spaventevole…
Fosca è la cugina del colonnello di Giorgio, trasferito dopo alcuni mesi da Milano in una desolata cittadina di provincia; l’incontro con la donna è dall’inzio fonte di turbamento per l’ufficiale che riconosce in lei l’incarnazione della malattia.
In effetti Fosca è la malattia in persona: il suo corpo esile, la sua voce debole, le sue grida lancinanti e l’aurea che le circonda, come se fosse lì lì ogni volta sul punto di morire e diventasse per tutti una sorpresa vederla ancora in vita;
Un fiore, che sostituisce il suo posto a tavola, un medico che parla di lei come l’isterismo fatto donna, come un miracolo vivente del sistema nervoso, e poi le sue urla lancinanti, il suo dolore straziante, biglietto da visita che precede il suo incontro con Giorgio, rabbrividato come se avesse visto la morte in faccia.
Ebbene si, Fosca ipersensibile ed epilettica, era la morte, il suo volto scarno, ossuto, come un teschio; la sua pelle sottile, debole, pallida; i suoi capelli scuri che rendevano ancora più spaventoso il contrasto con il corpo, i suoi occhi penetranti come la notte, come la morte.
Cosa può portare dunque un uomo, a cui obiettivamente fa ribrezzo una simile figura femminile a soggiocare a lei, a diventarne vittima ed infine amante?
Il fascino della morte in assoluto vince sulla volontà dell’uomo, che se in un primo momento si avvicina a lei per pietà, non riesce poi a distaccarsene; sa del male, dell’angoscioso rapporto che li unisce ma non è in grado di slegare il nodo creato; la sua vita si sta consumando, le sue energie stanno abbandonando il corpo, lei Fosca, lei la calamita di vita, sta trasferendo su di lui il suo male e ne sta prendendo la salute.
Quell’infermità terribile per cui avevo provato tanto orrore, mi aveva colpito in quell’istante; la malattia di Fosca si era trafusa in me: io avevo conseguito in quel momento la triste eredità del mio fallo e del mio amore