Pier Paolo Pasolini non ha bisogno di presentazioni. È ormai storia della letteratura. L’imponente spettro della sua opera e del suo operato artistico – ancora da definirsi, perché rimane fuggevole e sfaccettata – rimane forse l’ultimo baluardo contro l’attuale società dei consumi. La sua grande capacità di cimentarsi su più fronti e generi – dal teatro al cinema, dalla narrativa alla poesia, dal giornalismo alla critica letteraria – lo rendono una delle più grandi figure letterarie del secolo scorso, e probabilmente un intellettuale unico nel panorama italiano.
Catalizzatore non solo di chi lo leggeva, ha interpretato la fase storica a lui contemporanea come il sintomo di una nuova società alle porte, una fase di transizione con una cognizione profetica dell’avvenire sempre in relazione al passato e alla storia, antecedente al boom economico che avrebbe, di lì a poco, contaminato e sovvertito i costumi e i referenti culturali del nostro paese.
Al di là di ogni mera opinione personale dovute da una smisurata ammirazione che il sottoscritto nutre e coltiva nei suoi riguardi, Pier Paolo Pasolini rimane, ancora oggi, un corpo estraneo. Come un tronco che galleggia nel bel mezzo di una società ossequiosa e satura di speranze fatue e sterili, l’opera di Pasolini sembra una terra inesplorata dai confini incerti, un luogo irraggiungibile o straniero sui banchi di scuola. Eppure cimentarsi nella lettura della sua opera corrisponderebbe a una comprensione o a una nuova ed originale chiave di lettura della società contemporanea. Questo non si direbbe se si considera lo stuolo di studi critici, saggi e volumi dedicati all’opera pasoliniana, soprattutto all’estero. Ma anche in vita Pier Paolo ha dovuto sopportare continue prevaricazioni sulla sua identità sessuale, diffamazioni per pedofilia, un numero elevato di querele anche a causa delle sue opere apertamente schierate contro il clero, denigrato dalla cultura di destra perché sospettosa del suo comunismo, emarginato da quasi tutta la cultura di sinistra perché non sempre conforme ed in continua contraddizione con le ideologie progressiste. Tutto questo solo per oscurare una personalità sempre prepotentemente critica nei confronti della cultura conformista, anestetico del consumismo e detergente di quella omologazione partitica che è sempre stata soggetta ad ogni forma di potere facilmente corruttibile.
Al di là del suo grande contributo cinematografico e poetico, ‘Ragazzi di vita’ resta un tassello indispensabile per comprendere, nonostante resti finzione narrativa, il suo percorso artistico e intellettuale.
Considerata un’opera verista, poi realista, neo – realista ed infine d’avanguardia, il libro – non il primo romanzo ma la prima fatica narrativa di Pasolini ad essere pubblicata, fece la sua comparsa nell’aprile del ’55 come abbozzo per l’editore Garzanti, per poi essere pubblicata nel giro di qualche mese.
Ambientato nel sottoproletariato urbano, i protagonisti sono un gruppo di ragazzi che sembrano avere le caratteristiche del rifiuto umano. Ogni cosa che è un rifiuto è semplicemente qualcosa che inquina, quindi inutile ed inefficace ai fini dello sviluppo sociale e di quel progresso civile che Pasolini ha cercato in tutti i modi, e con varie forme espressive, di descriverci come iniquo e cancerogeno. Nonostante questo, Pasolini sembra voglia dirci, o ricordarci, che l’umanità vera, non quella appunto televisiva – è sempre stato un acerrimo nemico dei mass media e della televisione in particolare – o quella che in un modo o nell’altro vogliono farci passare come l’unica da raggiungere e mai opinabile, rimane quella triste e povera delle periferie e dei piccoli quartieri abbandonati, dove pullula una morale che forse non è mai stata tale, una vita “violenta” che fa della crudeltà una risposta alla crudeltà delle istituzioni che, per motivi che oramai non ci appartengono per negligenza e vigliaccheria, l’ha abbandonata come un relitto in fondo al mare, ossidata e corrotta, spinta solo dalla voglia di sopravvivere.
Ma anche uno splendido documento umano, una drammatica apologia dell’umanità che conta, da proteggere, da comprendere, cercare almeno di farlo nei limiti che la pigrizia e l’egoismo ci ha concesso.
La soluzione del dialetto ad esempio è uno dei tentativi più originali e innovativi della letteratura italiana. Nonostante Verga abbia già tentato questa via con I Malavoglia, la scrupolosità e la ricerca linguistica di Pasolini non ha alcun precedente: il capolavoro verghiano rimane un italiano parlato che conserva solo alcune movenze sintattiche o fonetiche del dialetto, mentre il radicalismo pasoliniano mette per iscritto direttamente il dialetto romanesco, quel “romanaccio” delle borgate che dona al libro non solo un’impronta documentaristica ma anche una musicalità poetica di un’originalità che per l’epoca fu quasi scioccante. Una costruzione antiletteraria e prosaica, ed allo stesso tempo una prova di incontrovertibile talento e di geniale metodologia.
Il romanzo è anche un analisi pedagogica sull’adolescenza. Le due sfere in continuo contrasto rimangono quelle dei giovani con il mondo degli adulti. È un rapporto conflittuale, doloroso, nevrotico, ma anche violento e omicida, pervaso da un senso di repulsione e di aggressione, oltre che di morte. La “vita” per questi ragazzi è qualcosa di inquieto che non verrà mai raggiunto, al di la dei meriti, guadagnato solo per essere sottratto ciclicamente, nuovamente. Il materialismo di Pasolini raggiunge fondi cupi di pessimismo: il denaro lo si ricava solo rubando o prostituendosi, e rimane l’unica fonte di gioia che viene prima di ogni forma di deturpazione emotiva o fisica. Ma è la morte il “filo di Arianna” di tutto il racconto. Nonostante i toni elegiaci, il susseguirsi ossessivo del motivo funebre sembra la testimonianza da parte dello scrittore di recidere volontariamente, per paura o per incapacità, l’evoluzione dei suoi personaggi, in una mancata e simbolica salvezza individuale.
Rimane comunque l’insegnamento di un grande maestro. Creativo, rigoglioso, sempre attento alla comprensione e mai un teorico freddo e ingrato, ha sempre avuto due interlocutori principali: l’alta borghesia, oggetto di odio ma pur sempre ritenuta da lui stesso “rieducabile”, ed il popolo martoriato.
Picaresco, di formazione o sociale, tutto questo, nulla o semplicemente altro, Ragazzi di vita, dopo più di mezzo secolo dalla sua pubblicazione, rimane un capolavoro.