Una settimana che sono chiusa in casa.
Sabato scorso la mia ultima uscita a pranzo con la mia amica Anto: sono tutto sommato di buon umore malgrado i primi sintomi dell’influenza si stiano timidamente affacciando. Il colorito è più giallo pallido del solito malgrado il fondotinta ed il rimmel, e mi sento già la febbre.
Sembro un limone.
Però ho una bella energia positiva, animata da una grande vibrazione cosmica. E tutto sommato sono quasi contenta all’idea che un po’ di febbre mi costringa a riposarmi e a rallentare il ritmo per un paio di giorni per ripartire più carica e rilassata.
Perché ho tanto bisogno di rallentare, soprattutto la mente che è sopraffatta da mille pensieri, consapevole come sono oggi di dover ripartire nella vita ancora una volta da zero, reset e via. Ancora, di nuovo, estenuante.
6 compresse di antibiotico, un numero x di cucchiai di sciroppo per la tosse e, vogliamo mettercelo, un bel ciclo mestruale “formato famiglia” dopo, sono la sbiadita e triste copia di me stessa.
Tentazioni pericolose in questi giorni, prenderei quel cellulare e so io chi chiamerei, do la colpa agli ormoni imbizzarriti che arrivati al capolinea n. 28 del mio mese oltre a farmi sanguinare “fuori”, mi stanno facendo sanguinare dentro. Ma sarà davvero colpa loro o sono io che in questi giorni di forzato isolamento sto sviluppando una masochistica propensione al melodramma e al pessimismo?
Mi sento influenzata completamente da una sensazione negativa, di solitudine e apatia, di dolore e paure, e mi detesto quando sono così, mi sono antipatica, mi trovo patetica e sembro la protagonista rincoglionita di un romanzetto d’amore in stile Harmony, infelice e quasi suicida per l’amor perduto. Ma per favore! Urge una soluzione!
Mi accendo una sigaretta immaginaria, è il gesto più ispirante per chi decide che è il momento di pensare e in più quelle invisibili non fanno male, mi siedo sulla poltrona ikea che per l’occasione ho portato in sala, allungo un po’ le gambe verso il pavimento freddo e mi levo le pantofole. La sensazione di freddo che parte dalla pianta dei piedi e si allunga rapida verso le cosce mi fa ritrarre ma, allo stesso tempo, mi dà piacere, come se tutto quel calore accumulato per colpa della febbre volesse lasciare spazio ad aria più nuova e fresca. Mi piace, e appoggio di nuovo i piedi in terra, questa volta più decisa, e poso le piante dei piedi più piatte che posso, e già che ci sono allargo un po’ le dita per godermi quel fresco che mi fa bene, lo sento.
Il freddo mi aiuta a pensare, infatti, più del caldo. Mi concentro col freddo, il caldo al contrario mi sfibra e mi fa disperdere le energie, col freddo invece le faccio convergere dentro me stessa per scaldarmi e, girando l’energia, faccio girare i pensieri che sono un flusso puro, senza forma.
Così inizia questo tour, questo stream of consciousness tutto mio: piedi freddi, brividi lungo la schiena, un bel tiro alla sigaretta immaginaria e mente in subbuglio. Eccoli lì questi miei pensieri, li inizio a vedere. Per non sbagliare bevo pure un bicchiere di whisky inesistente, fa molto scrittore americano, tipo Kerouac, ma non mi danneggia il fegato, sono una salutista io.
Mi concentro sulle influenze e ne voglio venire a capo, perché sento che il problema è che sono continuamente influenzata da qualcosa e qualcuno, e spesso, sono condizionamenti negativi di cui io non ho bisogno, vista la mia fisiologica tendenza a complicare tutto quello che maneggio per un po’, un vero fenomeno.
Mi chiedo fino a che punto sono mie le decisioni che prendo, e quanto invece dipendo dal punto di vista altrui per portare avanti progetti, scelte, errori anche, che spesso sono necessari per dare la curvatura giusta alla mia strada. Mi fermo a pensare a quanto mi influenzi la presenza o meno di un uomo nella mia vita, a prescindere da chi sia l’uomo in oggetto, principe o coglione, a quanto questo cambi la mia natura per assecondarlo. E ancora, quanto di tutto ciò dipende dall’educazione che ho ricevuto, dagli input esterni che quotidianamente ricevo, e quanto dipenda solo da me. E ancora, quanto di ciò che faccio lo faccio per compiacere chi amo, che sia una familiare o il mio uomo, quanto lo faccio per paura di cosa accadrebbe se optassi per un’alternativa inaspettata, quanto non faccio perché ho paura di cosa dirà la gente.
Io sono sempre stata un’insicura, pericolosamente troppo interessata al punto di vista altrui, eternamente ritenuto superiore per definizione, perché l’insicurezza è gemella dell’assenza di autostima e le due sorelline hanno messo residenza molti anni fa in quella dimora incasinata che è il mio cervello. Lentamente – spingendole fuori di forza da sola o con l’aiuto di un amico, di un amore, dei libri, della scrittura e della musica che ascolto – le ho fatte uscire un po’, ma ancora hanno il piede nella porta, come quei venditori di enciclopedia, o i testimoni di Geova, e come tali, rompono moltissimo le mie palle immaginarie.
In questi giorni di forzata solitudine mi sento come se un testimone di Geova travestito da venditore di enciclopedie fosse entrato in casa mia di forza e, non contento, stesse tentando di vendermi anche un aspirapolvere Folletto e una batteria di pentole. Tutto a 199 euro e 90, sono fottuta, mi sento invasa.
Eh già, sono proprio un soggetto influenzabile, e influenzato pure e come tale devo sbrigarmi a prendere la prossima compressa di antibiotico, sennò non guarisco e segregata in casa ci rimango per un anno e mezzo, col rischio che mi trovino cadavere, in pigiama blu a quadretti di due taglie più grande, con i piedi ritti e congelati, seduta su una poltrona dell’Ikea da 30 euro, che sfigata, chissà che direbbe “la gente”. Anzi, LAGENTE, tutto attaccato.
Mentre prendo la scatola del mitico Augmentin 1000 e verso un bel bicchiere d’acqua fresca, ecco che un pensiero attraversa la mia mente. Mi chiedo: “Se esistono pastiglie, gocce, iniezioni e mille medicine per curare l’influenza, qual è il farmaco virtuale che dobbiamo autosomministrarci per guarire dalle “altre” influenze, quelle deleterie per il nostro benessere interiore? E ogni quanto dobbiamo prendere questa pastiglia “miracolosa”? Una tantum o tutti i giorni?”.
Ma soprattutto, mi chiedo: “Di cosa è fatta?”, mentre mi guardo allo specchio, e osservo quelle belle occhiaie color cenere che non mi donano per niente, come il pigiama blu, del resto.
E gli occhiali da talpa, che sembro una maestra in menopausa, non me ne vogliano le maestre ma suonava bene.
Se fossi un uomo e mi vedessi in questo frangente, farei domanda per diventare gay.
E mi viene da ridere, anzi, d’un tratto mi viene voglia di sorridermi, con amore.
E’ fatta di me, ecco di cosa è fatta questa pillola immaginaria, della mia ironia che – se voglio – spazza via tutto, perché è il cambio necessario di prospettiva, la telecamera ruotata di 180° su me stessa, l’inquadratura inaspettata ma fissa su di me, è il piede di porco nelle mie mani per scassinare la porta della “normalità” che talvolta mi soffoca.
La cura sono io, che devo essere padrona orgogliosa delle mie manie, dei miei vizi, gusti, attitudini, delle mie peculiarità, dei miei pensieri stupidi, dei miei progetti a volte ridicoli, della mia voglia di vivere tutto con urgenza, del mio ridere e piangere, amministratrice unica di questo mio patrimonio irripetibile, non clonabile, forse cestinabile per molti, ma chissenefrega, tutto attaccato.
Forse, e sottolineo forse perché non sono una specialista di “concetti intelligenti” (me la cavo meglio nel settore “errori irreversibili”), la cura è fatta di ripetersi certe frasi positive riguardo noi stessi, di muovere le gambe perché il movimento aiuta, del preferire una passeggiata al freddo piuttosto che la stasi in casa al caldo, e soprattutto di progettualità, anche minima, e di decisioni prese consapevolmente in autonomia, anche stupide banali come comprare un vestito che non piace a nessuno o grandi come scappare per non affrontare un problema. Di fare cazzate come amare almeno per una volta l’uomo sbagliato, magari lasciarlo ma pur sempre amarlo e perdonarsi per questo, seguire il proprio istinto sempre e comunque, guardarsi allo specchio con amore anche se si è troppo magri o grassi secondo l’opinione generale, farsi l’occhiolino e accettarsi in quanto esseri unici, e urlarle queste decisioni, possibilmente in faccia a chi la pensa diversamente da noi.
Essere il centro del proprio universo, e guardare avanti, sempre.
Effetti collaterali (desiderati): scrematura delle frequentazioni inadatte al mio sentire più profondo e vita più congeniale a me stessa.
Risultato: sentirsi piena e non vuota grazie a questo e capire che una fase negativa, come quelle positive, non durerà per sempre.
Guarigione.