Un curiosissimo turbinio di contrasti.
In modo equilibrato, comunque. O, per meglio dire, dolce.
Questa è il primo pensiero che feci a proposito di Caterina.
La prima volta che lo pensai, fu proprio mentre la vidi giocare a scacchi contro Baldini – gran personaggio Baldini, elegante nel suo esser strambo – mi parve una vera furia, costretta in gabbia.
Non che abbia iniziato a prender a morsi Baldini durante la partita, sia chiaro. Lì seduta, al tavolino adiacente la biblioteca, costretta al silenzio. Costretta alla serietà assoluta, mentre nei suoi occhi si poteva leggere pura spontaneità in catene: pareva dovesse esplodere da un istante all’altro.
La biblioteca era quella di un collegio universitario. Un rigidissimo collegio universitario.
Uno di quelli in cui il prezzo per ricevere i migliori insegnamenti dai più illustri docenti, lo si paga – oltre che con rette smisurate – con la più assurda delle discipline e le più insensate rinunce.
Ho incontrato Caterina anni dopo, per caso, in una caffetteria.
L’ho riconosciuta, oltre che per i lunghi capelli ricci, per quel suo modo di starsene in un angolo, tazza di caffè doppio in una mano ed un libro nell’altra.
E’ diventata ricercatrice universitaria mentre io, invece, sono lo stesso di qualche anno prima.
Un po’ meno per caso, le ho parlato di scacchi. Così ha avuto inizio tutto.
Caterina dice che aspetta ogni mercoledì, a partire dal mercoledì sera.
Ci prendiamo per noi un pomeriggio a settimana, nella nostra caotica vita di studiosi precari.
Ora che è libera di dar sfogo a tutta la sua spontaneità, giochiamo le meno convenzionali partite di scacchi.
Quando arrivo da lei è già tutto pronto: i cuscini a terra, ai piedi del divano; sempre a terra la scacchiera, su cui i pezzi sono diligentemente disposti, attorniata da quei favolosi e morbidissimi cuscini rossi ed arancio.
E’ molto orgogliosa dei suoi cuscini. Ancor più della tenera imprecisione dei loro ricami dorati, frutto di “tanto duro lavoro”- credo me lo ripeta ogni volta- “Togli le scarpe Luca, mi rovini i cuscini!”
Sul tavolino, acqua calda, due tazze, zucchero, filtri d’infusi di frutta o tè, biscotti.
Ogni mercoledì, da qualche settimana.
Caterina dice anche che è il «suo piccolo momento di piacere». Così lo chiama. Io non mi illudo però.
Pare non si possa mai finire di conoscerla, mai arrivare a comprenderla oltre la superficie.
“Non tocca a me il nero” ci riprovo, come ogni volta. Più che un’osservazione pare sia diventato il mio modo per annunciarmi e sedere sul campo di battaglia. Totalmente arreso.
“Sì invece” controbatte.
Beve un sorso di tè mentre da dietro la tazza, che in parte le copre il volto, mi lancia quel suo sorridente sguardo di sfida.
Dunque, la sua prima mossa. Una danza, più che un avanzamento di pedoni. Non un movimento secco e deciso, ma non vi si può nemmeno intravedere esitazione.
Leggerezza.
Mi rapisce.
Talvolta pare accarezzi quel suo esercito bianco prima di lanciarlo contro i miei poveri, neri rappresentanti intontiti.
Le strategie si scoprono sulla scacchiera come seduzioni travestite da movimenti tattici da una casella all’altra.
Leggiadria e fascino. In una parola: donna.
Dal punto di vista di un esigente studioso d’arte, donna. Non si tratta unicamente di bellezza o culto della bellezza. Non sono un esteta incallito. Studiare linee e colori, tocchi e stili, forme e contorni, con la presunzione di trovarvi un senso, ci infonde un sapere tutto nostro ed un gusto che riteniamo nettamente superiore alla media.
Così assisto al più seducente spettacolo dei suoi colori e delle sue linee, librarsi delicatamente fra quadrati bianchi e neri.
L’essenza stessa della sua stanza è un continuo affronto al mio rigore; quelle tinte così contrastanti e mal accostate, ma nemmeno abbandonate alla casualità: frutto di un gusto prettamente singolare.
Le si legge addosso, anche nel più piccolo dei suoi gesti, il desiderio d’esser donna e d’esser guardata; nel suo modo carezzevole e così magnificamente attraente.
Questo noi studiosi d’arte lo capiamo bene.
Mi perdo seguendo il gesto della sua mano: mi lascio sedurre dalla dolcezza con cui poggia ogni pezzo, dopo averlo mosso.
Muove la mano, ruota il polso e controlla con lo sguardo che i miei occhi la seguano.
E le riesce. Le riesce tremendamente bene, senza alcuna arroganza, senza il minimo barlume di vanità. Niente.
Naturale. Naturalmente sensuale.
Sono in trappola. Ancor prima d’esser vittima del bianco che muove con le sue dita, lo sono in quella stanza, fra i suoi colori e le sue linee.
“Non sei concentrato, oggi.”
Non sono concentrato, come potrei esserlo.
Riemerge il contrasto – quando si sente minacciata dalla spontaneità altrui – ora esige serietà.
Mi porta al limite senza far nulla. Poi si ritira e mi richiama dal vaporoso senso d’incantamento in cui lei stessa mi ha accompagnato.
Un’ora. Forse poco più.
Il suo piccolo piacere dura giusto il tempo di condurmi gentilmente alla sconfitta.
Continuo a non illudermi anche quando la sua mano consola il mio volto, poi passa fra i miei capelli ed infine conduce la mia bocca alla sua.
Senza malizia, solo un brivido.
Poi torna a ridisegnare curve – sottile – taglia le linee di fumo con cui l’incenso invade l’aria che ci divide.
Fuori è ormai sera.
Il nostro mercoledì si è spento, soavemente, nelle sfumature del tramonto.
La sua opera d’arte ha pervaso la stanza, ammaliato il mio essere. Ha condotto magnificamente il suo esercito bianco, ora può invadere il mio mondo con i suoi contrasti ed i suoi colori.
Il giallo delle pareti, il verdone del mobilio in stile etnico, il blu del divano; porpora i suoi pantaloni, floreale la sua maglietta.
Rosea e soffusa la luce che filtra dalle lanterne dentro le quali tremano, vivacemente, le fiammelle delle candele.
Mi accorgo di come, in mezzo a tutto questo stoni, quella sterile scacchiera, prima che si alzi per riporla in un vecchio cassettone, a fianco della finestra.
Allora comprendo.
Il suo piccolo piacere non è che altro che una danza di linee e colori.