Da Ariosto a Parini, da Alfieri a Victor Hugo. Per tutta la grande tradizione satirico-moralistica europea, Decimo Giulio Giovenale, nato nel Lazio, ad Aquino, tra il 50 e il 60 d.C., è stato a dir poco determinante.
Di famiglia benestante, esercitava la professione di avvocato, senza tuttavia ricavarne i guadagni sperati. Fu in età matura che approdò alla poesia (e non certo per guadagnarsi il pane).
Sedici satire, in esametri, suddivise in cinque libri, costituiscono la straordinaria eredità di questa singolare figura della letteratura latina. A differenza di Persio, suo predecessore nel genere della satira, Giovenale rifiuta nettamente l’indirizzo moralistico. La sua è la poetica dell’ indignatio.
Il poeta sa di non poter influire sul comportamento degli uomini, ritenuti prede della corruzione, senza speranza di riscatto. La satira si limiterà così a denunciare, a gridare la sua protesta. Giovenale si guarda intorno e vede degenerazione ovunque, sia nelle classi dirigenti che nella società civile, all’interno della quale sceglie degli obiettivi ben precisi. Bersagli privilegiati del poeta sono i cacciatori di eredità, gli omosessuali e soprattutto le donne. Quelle, precisa l’autore, emancipate e libere, che con il loro disinvolto muoversi nella società rappresentano, di fatto, il trionfo dell’impudicizia. La satira VI è uno dei più violenti manifesti di misoginia di tutti i tempi.
Lo sdegno, si diceva prima. Ma la grande rivoluzione della poesia di Giovenale è anche nello stile. Per la prima volta la satira abbandona lo stile basso e umile (secondo la codificazione tipica dell’età classica). Alla violenza dell’ indignatio deve essere infatti conforme la grandiosità dello stile. E “satira tragica” è stata la definizione che nel corso dei secoli ha riscosso il maggior successo ed ha impresso nella storia il nome di Giovenale. Troppo importante la materia trattata, sembra dirci il poeta, per scherzarci su. I contenuti sono dei veri e propri monstra, il caso è davvero eccezionale.
Ma l’astio sociale di Giovenale nasconde anche qualcos’altro. Nelle sue parole c’è sicuramente il risentimento dell’intellettuale che si sente escluso dal potere, che non è integrato come forse vorrebbe in una società che critica, ma da cui, in fondo, si sente fortemente attratto. È un po’ il paradosso di tutti gli intellettuali.
La sua grande attualità risiede nella descrizione delle condizioni di miseria in cui versa l’uomo di lettere, che coltiva i propri ideali nella povertà; nella denuncia della nobiltà di nascita, a cui oppone con orgoglio quella derivante dall’ingegno e dai sentimenti; dall’atteggiamento di disgusto per la dilagante corruzione morale che lo spinge a farsi poeta satirico.
Difficile est saturam non scibere
È difficile non fare satira – ci dice Giovenale – in tempi come questi. Siamo nel II d. C.
Oggi, se guardiamo allo straordinario successo di cui gode la satira in Italia, una spiegazione, forse, la troviamo.