Ci sono uomini, nella millenaria storia della letteratura, che, consapevolmente o inconsapevolmente, segnano una svolta nel genere in cui si cimentano. Non lo arricchiscono semplicemente, ma lo codificano, dandogli nuova vita, creandolo di fatto ex novo.
È questo il caso della straordinaria storia che vede protagonisti Marziale e l’epigramma.
Ed è accaduto tutto una ventina di secoli fa, quando un giovane di origine spagnola, Marco Valerio Marziale, decide di votare la propria attività creativa ad un illustre genere letterario, quell’epigramma nato in Grecia 800 anni prima della nascita di Cristo. Epìgramma è a tutti gli effetti una parola greca, che significa etimologicamente “iscrizione”. I testi tramandati sono in metro vario, per lo più di carattere votivo o funebre, e commemorano persone, luoghi e fatti rilevanti della vita civile. Il genere assume caratteri permanenti in età ellenistica, quindi fa la sua comparsa a Roma, dove viene coltivato per lo più dai protagonisti dell’ambiente neoterico.
Ma Marziale è il primo ad adottare stabilmente la denominazione di epigramma, preferendola alle altre alternative possibili, per indicare tutta la tipologia dei propri carmi: 15 libri, 1561 componimenti, quasi 10 000 versi. Numeri che parlano da soli.
L’autore afferma orgogliosamente in più luoghi l’originalità della propria scelta poetica. Il suo intento esplicitamente dichiarato è quello di ritrarre la vita così com’è: i suoi uomini sono quelli che si possono incontrare tutti i giorni nei luoghi maggiormente frequentati della capitale dell’Impero. Non manca la polemica, rivolta soprattutto alla poesia epico-mitologica, da cui il genere praticato da Marziale prende siderali distanze per quanto riguarda la forma (lì lunga, qui breve), il linguaggio (lì ampolloso, qui ironico e realistico) e i contenuti, che attingono adesso alla realtà quotidiana.
Hominem pagina nostra sapit
La nostra pagina ha il sapore dell’uomo, sentenzia Marziale in uno dei suoi epigrammi. La sua missione è ritrarre la verità. E la verità non è nelle terre lontane del mito, non sull’Olimpo, ma per le strade affollate di Roma, tra il Quirinale e il Foro. Quello che descrive il poeta è un mondo brulicante, ricco di vitalità, che mette in primo piano l’immagine di una città virtuosa e viziosa. E l’occhio acuto di Marziale descrive tutto ciò non con tono moralistico. Il suo fine non è la denuncia sociale (questa la principale differenza dalla satira): egli scruta con l’interesse del collezionista curioso, estraneo ad ogni forma di partecipazione emotiva, attento solo nell’osservare i personaggi, per lo più degradati, che affollano una metropoli dell’antichità. Nei brevi carmi di Marziale trovano spazio prostitute, impostori, cacciatori di dote, matrone infedeli, adulatori, parassiti e imbroglioni.
E l’immensa fortuna della sua opera presso i posteri imporrà l’identificazione tra i caratteri del genere letterario dell’epigramma e quelli propri dell’opera di Marziale. Il gradimento della sua produzione letteraria, cosa rarissima, è stato sempre altissimo. Già in vita le sue opere venivano lette e recitate, tanto che lo stesso Marziale ne prese atto: Laudat, amat, cantat nostros mea Roma libellos (“La mia Roma loda, ama, canta i miei epigrammi”).
Tra le altre influenze, fortissima quella esercitata sugli Epigrammi de La religione del mio tempo di Pasolini. Dal I secolo dopo Cristo al 1958.