Napoletano DOC, Jacopo Sannazaro è stato un punto di forza di quello splendido movimento culturale che è stato l’Umanesimo meridionale, l’altra grande personalità, insieme a Giovanni Pontano, della Napoli aragonese, una capitale ricca e fiorente, culla di illustri ingegni.
Membro storico dell’ “Accademia Pontaniana”, all’interno della quale era noto con lo pseudonimo di Azio Sincero, Sannazaro ha vissuto tra mille dolori personali (a 19 anni aveva già perso entrambi i genitori) e una fedeltà quanto mai autentica nei confronti degli Aragonesi, che ha servito per lunghi anni. Federico, l’ultimo re della dinastia, premiò il suo rispetto e la sua lealtà donandogli, nel 1499, una villa a Mergellina. Due anni dopo l’umanista lo seguì in esilio in Francia, da dove fece ritorno a Napoli solo dopo la morte del sovrano.
Tante le sue opere. Ma solo una lo ha consegnato all’ immortalità: l’ Arcadia.
Romanzo pastorale in forma di prosimetro (misto di prosa e versi), dalla complicata cronologia redazionale, edito a Napoli da Pietro Summonte nel 1504, l’ Arcadia riveste un’importanza capitale nella storia della letteratura italiana ed europea, con significative invasioni anche nel campo del teatro. L’umanista partenopeo codifica un paesaggio, naturale e spirituale, destinato ad una fortuna immensa: è l’Arcadia, appunto, un mondo incantato fatto di monti e boschi nei quali vivono i pastori, personaggi già “studiati” da Teocrito prima e Virglio poi. Questi pastori gareggiano con il canto, immersi in un mondo ideale, sospeso, senza tempo, ma contemporaneamente (ed è qui firma del Sannazaro) ricco di allusioni alla realtà contemporanea dell’autore, che si compiace nel giocare con il suo tempo e con la sua realtà.
E la realtà di Jacopo Sannazaro era una medaglia sulle cui due facce c’erano la Corte regia aragonese e l’Accademia Pontaniana. Nei suoi pastori il poeta ama identificare le personalità più prestigiose e gli amici più intimi. E non può mancare, naturalmente, la componente autobiografica, che fa il suo ingresso nella seconda parte dell’opera, quando il narratore racconta di essere giunto in Arcadia dopo aver abbandonato Napoli per sfuggire alle pene d’amore; ma neanche in quei luoghi riesce a trovare una vera consolazione, perchè rivede ovunque l’ immagine della donna (che nella realtà era tale Carmosina Bonifacio, amata infelicemente dall’umanista e morta in giovane età).
Tutta l’opera è attraversata dall’ombra tetra del dolore e della sofferenza, cantata dalla voce malinconica dello scrittore.
Come spesso accade, è il tempo a decretare il successo. L’ Arcadia è di fatto diventato il modello di un genere, quel romanzo pastorale destinato a durare nei secoli e a diffondersi in tutte le culture europee. Costituisce un punto di partenza essenziale per la letteratura, dalla lirica alla narrativa, fino al teatro.
Al grande umanista napoletano, che ha trasposto la corte aragonese in un ambiente artificioso, va accordato il grande onore di aver fondato un archetipo.
Roba non da poco, insomma.