Lo sfondo è un drappo nero. Il mondo, uno stretto rettangolo di legno. L’aria è la vita.
Musica triste.
Una figura ferisce il telo con la sua presenza, entra. Si fissa al centro del mondo, ed è un istante: parla parole di metallo.
Sono colei che schivi per strada
Sono lo sguardo che getti oltre le tue abitudini
Sono le rose.
Il volto scuro profuma di terre lontane. Sullo sfondo, sul drappo nero, vivono ora i suoi occhi, proiettati come su uno schermo cinematografico.
I suoi occhi verdi poi pupille bianche poi iridi strette poi svanisce tutto. Poi, buio.
Se ti sei seduto qui, e mi hai visto entrare pensando che io mi presentassi, puoi andar via. Esci, esci per strada, mi troverai mille volte, e mille volte sarò una sconosciuta.
Non ho un nome. Chiamami Senza-nome, o chiamami Le Rose. Ogni cosa possiede un nome, lo riveste come una pelle invisibile che tiene unita la sua essenza di vita. Il nome, è un meccanismo di difesa.
Un po’ come nelle rose, le spine.
Di nuovo sullo sfondo, il proiettore crea delle immagini. Rose.
Rose poi petali poi spine poi sangue. Poi sangue. Poi, buio.
Ricordo il mio vero nome, ma lo tengo per me. Un segreto celato dentro i petali della mia vita. Devi sfogliarmi poco alla volta, lasciar cadere le mie difese, per sapere chi sono. Devi sfiorarmi con la punta delle dita, le tue mani sulla mia pelle sotto gli stracci, lasciarli cadere – chiuderò gli occhi per non far scivolare via il mio nome.
Non saprai chi sono. Chiamami Le Rose.
Ogni donna ha una rosa chiusa dentro sé. A me spetta coglierla. Rose bianche, rose rosa, rose blu. Color pesca. Rose rosse, rose nere. Floride, appassite. Solo spine.
Anche gli uomini le possiedono, ma non mi importa più scoprirle. Gli uomini sono come labirinti con tante soluzioni – tante strade. Troppo facile, risolverli. Io voglio le rose.
Tanti corpi nudi poi due corpi nudi poi un corpo nudo poi una bambina. Poi, la bambina rimane sullo sfondo.
Sono io. Avevo nove anni. Tu sei partito dal mondo civilizzato, per raggiungermi. Avevo la mia bambola tra le mani, me l’hanno portata via. Eravamo dodici corpi nudi contro il muro – a stretto contatto, potevo sentire lo strato di intonaco gelido staccarsi a pezzi sotto la pelle della mia schiena, cadere sul pavimento. Ho esclamato: voglio la mia bambola.
Hai scelto me.
Mi hai portato nell’altra stanza, e lì hai strappato a morsi la mia rosa.
Continuavo a ripetere: voglio la mia bambola.
Dilaniata con le mani, con i denti, con le labbra sporche, petalo dopo petalo mi hai lasciato nuda al freddo della pura esistenza. Le mie spine ti hanno sporcato di sangue la lingua, ma a te non importava.
Continuavo a ripetere: voglio la mia bambola. Non ti importava.
Mi hai strappato l’anima nella lussuria della tua vita noiosa e, senza chiedere, hai colto la mia rosa, senza la cura di piantarne un’altra, o di far cadere qualche petalo dentro di me. Qualche germoglio, affinché rifiorisse un’altra rosa.
Continuavo a ripetere: voglio la mia bambola. Non mi hai dato ascolto.
Li hai divorati tutti, i miei petali, il tuo stomaco culla – come un incubo – i resti della mia rosa. Non sono rimaste neanche le spine. Non è rimasto neanche il gambo. Non è rimasto nulla.
Non volevo più la mia bambola, volevo la mia rosa.
Una bambina poi rose poi petali poi spine poi sangue. Poi sangue. Poi, buio.
Sono cresciuta tra il fango e le mani sudate di uomini di altri mondi. Sono cresciuta con attenzioni che non desideravo, cercando di sfuggire a carezze che sapevano di catrame. Nessuno vorrebbe crescere così, come un albero a cui viene, ogni giorno, reciso un ramo.
Come una rosa, senza petali e spine. Senza difese.
Ho ritrovato la mia bambola di pezza, ce l’aveva Thee-bal. Thee-bal aveva la pelle del colore del crepuscolo, e dentro di sé, una rosa. Ne possedeva una, me ne accorsi subito. L’avrei stretto a me, come facevano sempre i miei uomini al buio delle stanze vuote, perché lui era bello. Era bello e gli volevo bene, perché lui mi ridiede la bambola.
Me la pose tra le mani e disse: “se ti portano ancora lì dentro, io li picchio con i sassi.”
Sorrisi e vidi come la sua rosa era florida e forte, come appena staccata da un cespuglio rigoglioso. Avrei voluto portare con me qualche petalo, cullarlo nella dolcezza del mio ricordo.
Una bambina poi un bambino poi una rosa poi un petalo. Poi, buio.
Vennero altri uomini, mentre io giocavo con la mia bambola di pezza. Thee-bal comparve dal nulla e mi portò con sé, dietro un albero secco. Ci nascondemmo senza respirare, come se le nuvole avessero gli occhi. Senza respirare.
Una bambina e un bambino poi una rosa poi un albero. Poi, ancora un albero.
L’uomo dagli occhi blu, che mi portava in quella casa ogni volta, mi trovò. Thee-bal si mise in mezzo, pronto a scagliargli una pietra che teneva nel pugno della mano sinistra. Gli occhi blu lo guardarono, lo presero e lì pensai che lo gettassero per terra, facendogli male. E invece lo portò con sé.
Lo portò via con sé, dicendo: “Oggi gli stranieri hanno altri gusti.” Rise e sputò.
Un uomo poi Thee-Bal poi mani sporche poi le spine. Poi, buio.
Quando tornò, Thee-Bal aveva gli occhi rossi e impronte di mani grandi sulle guance. Cercò di non piangere e mi abbracciò. Avevano strappato la rosa anche a lui, che era uno dei pochi uomini che ne possedeva una.
“Te la ridarò.” Dissi. “Te lo prometto.”
Thee-bal cresceva, e passava i pomeriggi nella casa sempre più spesso di me. A volte, eravamo in fila insieme, contro il muro. Pugni serrati – una vita incastrata nell’altra – tremavamo desiderando di sparire come i pezzi di intonaco verde, sul pavimento.
A volte venivamo scelti insieme, ma questo non voglio raccontarlo.
Thee-bal un giorno non rientrò dalla stanza delle violenze. Ci fecero uscire tutti dalla casa, arrivarono molti uomini e non ci fecero vedere niente.
Non l’ho mai più visto, Thee-Bal, non ho mai più visto ciò che rimaneva della sua rosa. Non ho più visto nessun occidentale.
Neanche l’uomo con gli occhi blu.
Non ho mai più visto la casa delle violenze.
Una bambina che diventa adulta poi una rosa poi sangue. Poi sangue. Poi, buio.
Sono fuggita via, a diciotto anni. Sono arrivata nella terra dei miei uomini.
Vendo l’amore, vendo ricordi. Gli appuntamenti diventano incontri, con le mie rose.
Chiamami Senza-Nome, chiamami Le Rose. Sono venuta qui, a vendervi un po’ di magia. Io vedo ciò che avete dentro, e ve lo regalo, in cambio di qualche moneta. Alcuni di voi mi scansano, altri mi fanno cenno di no con la testa – il loro amore può aspettare.
Le donne mi guardano con sospetto, per paura che gli uomini cedano ai miei occhi verdissimi e alle mie mani morbide: con queste consegno le rose, a volte sfioro i loro fidanzati. Nessuno di loro, però, possiede una rosa dentro di sé.
Alcuni comprano due rose, tenendone una per se stessi.
Altri comprano tutti il mazzo, ma non è questo che desidero.
Io voglio vendervi la vostra rosa, ritrovarla tra tutte quelle che ho – sono io a decidere quale concedervi. Affinché, nei mazzi che porto in giro, me ne rimanga una. Quella è la mia. O quella di Thee-bal, questo non posso saperlo.
La getto nel fiume insieme alle lacrime, in ricordo del mio amore perduto che non ho mai ritrovato.
Non ho mantenuto la promessa, Thee-Bal. Non sono riuscita a ridarti la tua rosa.
Lo sfondo è un drappo nero. Il mondo, uno stretto rettangolo di legno. L’aria è la vita.
Se ti sei seduto qui, e mi hai visto entrare pensando che io mi presentassi, puoi andar via. Esci, esci per strada, mi troverai mille volte, e mille volte sarò una sconosciuta.
Non ho un nome. Chiamami Senza-nome, o chiamami Le Rose.
Musica triste.
Esce.