Era una notte buia,tremenda. Le strade erano permeate di una sottile e decisa brina invernale, che gelava l’asfalto delle vie dissestate di periferia.
C’era un silenzio ancestrale, qualcuno passava di tanto in tanto, stringendosi addosso il cappotto si confondeva lontano tra le luci o partiva con una macchina per chissà quale segreta destinazione. Io non stavo partendo, nè stavo arrivando.
La mia posizione nel mondo era del tutto vagamente accennata, sostenuta debolmente da qualche bugia che non riuscivo a comprendere. La vita mi passava davanti come un film in bianco e nero e io me ne stavo lì, appollaiata sulla vetta della disperazione…e attendevo.
Attendevo da piu’ di un anno,con devozione. Attendevo una risposta, qualunque fosse,anche se non mi aspettavo ormai piu’ niente in grado di sorprendermi. Nonostante la mia imperturbabile ostinazione non potevo non notare con disapprovazione le infinite peripezie e sfortune che avevo dovuto subire o scrollarmi di dosso il prima possibile.
Ma ero rimasta ferma, salda sulle mie decisioni, sporgendo di tanto in tanto il collo per osservare i movimenti sfocati della pellicola della vita che mi sfrecciava davanti, sempre con quella misteriosa pazienza che mi faceva attendere all’ombra di un sospiro.
Ma forse in quel momento, in quella scatola bianca con iscritto sopra “securpool” non mi sentivo piu’ tanto sicura. Non mi sentivo a mio agio su quel sedile sudicio e scomodo, avrei preferito ridestarmi di colpo da quell’eutanasia che mi aveva addomesticata per così tanto tempo,e fuggire lontano. E invece niente di tutto questo accadde,anche se le mie certezze stavano affiorando in me come bollicine di sale e bruciavano su quelle ferite che mi ero ostinata di nascondere, piuttosto che curare. Mi inorgogliva l’idea di non dovermi curare del dolore, il fatto di poterlo snobbare e scanzare.
Improvvisamente, stretta nel mio giacchino nero, un vago pentimento mi aveva attraversato lo stomaco e l’idea di aver sbagliato per tutto quel tempo mi balenò nella testa procurandomi un gran fastidio. L’orgoglio,questo maledetto bisogno di sentirsi al disopra dell’umana sofferenza, come una dea alla quale non possono arrivare le sofferenze dei comuni mortali, una creatura immune a tutto questo,la creatura che non ero. Lui non faceva altro che fissarmi,da parte sua, con quel disarmante sguardo di chi non ha paura di nulla, che mi aveva sempre messo in una condizione di continua soggezione. Non potevo far altro che evitarlo,come sempre,sfuggire codardamente dalla sua espressione indagatrice e severa,che non mi lasciava scampo e mi denudava anche del piu’ banale lembo di pelle. Non potevo mentire,non potevo fingere,come ero abituata a fare con il resto della razza maschile, ma non con lui. Era inutile mantenere cocciutamente il punto, anche contro ogni forza avversa,non sarei mai riuscita a impormi o a convergere verso una direzione che non fosse la stessa percorsa da lui.
Dopo un anno di fatica, di lacrime e di litigate con Dio, la mia autostima, il mio involucro saldo e tranquillo era stato fatalmente lesionato da un uomo. Dopo tanti sfortunati incontri d’amore, la mia riluttanza nei confronti del genere maschile aveva raggiunto apici talmente alti da convincermi di essere una sorta di reincarnazione della dea Bastet, giunta in terra per difendere quel poco di dignità femmile rimastami in corpo.
Aveva funzionato. Ero diventata una creatura perfetta, inarrestabile.Nulla poteva anche solo sfiorarmi,nulla che fosse amore,dolore,risentimento e tutto questo solo perchè l’avevo categoricamente deciso,in una soleggiata giornata di settembre,mentre raccimolavo le ultime forze per asciugarmi gli occhi. Il fascino che emanava la mia presenza distaccata e distinta aveva catturato tutti,nessuno riusciva a stancarsi del mio atteggiamento regale e composto, nulla a che vedere con la sciattaggine delle ragazzacce che ballavano sui cubi di improbabili discoteche notturne. Ma lui era entrato distrattamente nelle mie giornate, annidandosi nelle mie vene con un presagio che mi ronzava continuamente nelle orecchie. Non che mi piacesse, almeno all’inizio, ma qualcosa che si nascondeva da qualche parte nei suoi occhi mi suggeriva che non eravamo poi così diversi. Lui con la sua sfacciataggine, il suo sciame di ancelle che lo seguiva fedelmente ad ogni suo minimo passo,le sue stupide foto scattate nel cesso di casa, la superiorità esasperante che ostentava ad ogni sua parola o gesto. Tutto questo mi faceva venire da ridere, provavo compassione per quell’omuncolo così affaccendato in sciocchezze prive di spessore.
Ma fino a quel momento le cose non erano cambiate, i miei sospetti si erano rivelati veritieri,la serie di inesattezze che avevo formulato nel corso di quella lunga e sfiancante frequentazione erano emerse una dopo l’altra. Eravamo simili,non uguali,altrimenti non saremmo arrivati a quel punto di criticità.Ma simili,certamente. Nascondeva delle profonde ferite e la sua apparente indifferenza celava malinconiche realtà segrete, frutto di una sensibilità estrema che mai mi sarei aspettata di trovare in un individuo della serie “l’uomo che non deve chiedere mai”. Lui, come me, era stato ferito, deluso, tradito e tutto quello che restava del suo buon senso e della sua empatia e sensibilità era stato annullato o forse nascosto in un posto lontano, dove nessuno sarebbe mai potuto andare a sbirciare. Nessuno tranne me.
Eravamo arrivati alla fine della corsa, quel punto estremo dove non si vorrebbe mai arrivare. A volte pensavo che sarebbe stato bello gingillarsi ancora per un pò,ritardando ulteriormente quella decisione che rivendicavo coraggiosamente con tanta insistenza.Volevo ritardarla per paura,per paura che potesse ferirmi ulteriormente, paura dello sforzo sovraumano che avrei dovuto impiegare per tamponare quell’estrema tortura,se mai fosse venuta a cogliermi di sorpresa. Eravamo arrivati difronte a quel burrone, dove le uniche scelte erano due: la prima consisteva nel lanciarsi. La seconda nello stringersi la mano civilmente, scambiarsi una pacca sulla spalla e proseguire ognuno per la sua strada.
Ci eravamo scannati fino a quel momento, a volte ci eravamo amati, a volte non ci parlavamo nemmeno. Eppure,il legame che mi incollava al suo respiro era come un’istitnto primordiale, qualcosa di automatico che parte a raffica senza che tu possa esprimere in tempo la tua contrarietà. Lo amavo,anche se sapevo perfettamente che lui non amava me, ma questo era un dettaglio trascurabile se pensavo alle volte che avevo rischiato di perderlo, alle volte che lui aveva rischiato di perdere me, perchè nonostante tutto, il mio orgoglio da dea non si era mai assopito veramente,neanche dopo la sua venuta nella mia scintillante vita di popolarità e adorazione. Una volta,la mia ex migliore amica mi disse “Hai visto quant’è bello Il bello romano?”. Mi ero limitata a lanciarle uno sguardo perplesso, per poi risponderle con disinteresse un sonnacchiso “Chi è?Non lo conosco” tra uno sbadiglio e uno sguardo all’orologio. Quel nome, nel corso del tempo, aveva tracciato in me una sorta di solco profondo,nel quale sprofondava la mia intera vita di stelle e amici su Facebook.
Tutto aveva perso importanza o era semplicemente canalizzato verso di lui, la sua immagine distinta tra tante. Il pensiero delle volte che avevo pianto di rabbia, quando non mi chiamava o quando rispondeva con scioccante disinvoltura alle stronzette di internet, mi provocava ancora uno stato di choc ed impiegavo comunque qualche istante prima di riprendermi del tutto. La gelosia era diventata ormai una sorta di amica, una compagna con cui condividevo gran parte delle mie giornate oziose,che si alternavano a momenti improvvisi di ira e depressione. Ma tutto questo, insieme ad una lunga lista di autocommiserazione, era diventata la normalità. Ero passata dall’essere una dea,all’essere una comune drogata, dipendente del profumo di una persona che non era mai stata mia, ma che comunque avrebbe potutto esserlo in un futuro non troppo lontano. Ma il tempo passava e quel “futuro non troppo lontano” si faceva inafferrabile.Tant’è che presto sentii di non poter continuare a far parte di quel ridicolo teatrino. Ero stufa di infliggermi un’inutile sofferenza tutte le volte che provavo a nominargli la parola “fidanzamento” vedendolo incupirsi subito dopo, neanche gli avessi proposto di sposarci. Ero stufa di tutto, di sentirmi rispondere con frasi sterili del tipo “non mi sento ancora pronto” o ” non so se ti amo”.
Alcune giornate le passavo rannicchiata sotto le coperte,affogando nei miei stessi singhiozzi aspettando solo che il giorno passasse svelto, senza prendermi in causa nelle sue problematiche assurde. Non avevo voglia di lasciarmi coinvolgere da nulla, preferivo restar e inerme immersa nelle mie riflessioni, passiva come una foglia d’autunno.
Altre giornate le passavo ammazzando la rabbia su me stessa, autocolpevolizzandomi oppure scaricando la rabbia su poveri pezzi di carta rinchiusi nelle segrete del mio diario.
Il mondo sembrava non sentire le mie grida, i miei sussulti ogni volta che nella notte mi svegliavo di soprassalto, terrorizzata dagli incubi colmi di umiliazione.
Una cosa era certa, non mi amava.
Così, quel momento tanto atteso era arrivato fulmineo in una serata di dicembre.
Il 20 dicembre. Una cosa tanto importante immersa in un clima natalizio decisamente irritante, che rendeva tutto piu’ stupido di quanto gia non fosse.
Avevo poggiato i piedi sul cruscotto, quasi a voler imporre la mia posizione agguerrita come per dire “Hai trovato pane per i tuoi denti!”. Lui restava seduto come a suo agio, piazzato comodamente con aria autoritaria e sicura di sè. La cosa mi innervosiva ma lasciai che cominciasse a parlare, sfogandosi nel suo semi torpiloquio a proposito del nostro vissuto sino a quel momento.Comincio’ a blaterare instancabilmente dei miei sbagli, di quello che avevo fatto che non dovevo fare e di quello che dovevo fare e non avevo mai fatto. La sua convinzione assaliva violentemente l’esile filo di speranza rimastami in corpo, per cui dopo circa dieci minuti lasciai l’abitacolo con la mente per andare a rimuginare senza sosta su ogni singolo suo errore. Tuttavia,nonostante percepissi vagamente il senso delle sue parole, lasciando la mia espressione impassibile e perfettamente inalterata, seguivo il filo conduttore (del tutto illogico) dei suoi discorsi. Avrei potuto rovesciargli addosso con estrema crudeltà tutte le sue antecedenti malefatte, che avevano abbassato notevolmente il mio iniziale stato di salute fisica e mentale piu’ che eccellente e che mi avevano gradualmente portato ad una sorta di semi incoscienza con la quale convivevo gia da diversi mesi. Tuttavia rimasi muta, immobile, sperando solo che finisse. Non avevo voglia di controbattere alle sue inesattezze cronologiche, di rispondere alle sue insistenze e istigazioni, nè di dar peso alle sue incorrettezze verbali. Preferivo lasciare che quel fiume in piena si sgonfiasse, fino all’estrema decisione che sembrava non voler arrivare mai. Sapevo già come sarebbe andata a finire. Mi avrebbe liquidata, tirando fuori un’altra scusa patetica delle sue. Mi sarei sistemata il cappottino, concentrandomi per riallacciare le lacrime, e poi me ne sarei andata via incontro al futuro, con quella certezza sinistra di aver buttato troppo tempo. Questo avrebbe comportato l’incapacità di guardarmi alle spalle, di scrutare il passato per quello che era oggettivamente parlando. Mi stavo cominciando ad abbituare gia a quella situazione di instabilità e smarrimento che di li a poco mi avrebbe investita, lasciandomi allo sbaraglio nel mondo senza alte ne parte. Ma le ultime parole che pronunciò arrivarono come un getto d’acqua gelida a risvegliare i miei sensi.Talmente ero immersa nei miei pensieri che non ero riuscita a captare con precisione il senso di quelle ultime sillabe…o forse l’avevo percepito e vagamente compreso, ma tanta era la mia ostinata e prevenuta posizione di difesa, che non riuscivo a rimetterle insieme affinchè potessero essere comprensibili.
Evidentemente, notando la mia espressione inebetita, aveva capito la mia momentanea incomprensione, così si passò una mano dietro al collo, come innervosito e ripetè piu’ chiaramente le ultime parole, scandendole con precisione sistematica, come si farebbe con un bambino alle prime prese con la lettura.
<<Voglio stare con te>> , disse.
Non traspariva in lui nessuna commozione,nessuna emozione particolarmente entusiasta della decisione presa, ma questo lo notai dopo. Talmente era stata chiara la sua ripetizione, che ebbi la sensazione di poter svenire da un momento all’altro. Era una frase completamente sconnessa dal resto delle cose che mi aveva rinfacciato fino a quel momento,una frase che non mi sarei mai aspettata di sentire.Non mi ero preparata a quest’evenienza,non avevo messo un profumo buono sulla pelle o pettinato adeguatamente i capelli in vista di quest’occasione. Ero in una condizione trasandata e malconcia,come era diventato mio solito andare in giro in quegli ultimi mesi di stress. Non ero pronta ad accettare un simile cambiamento di programma, avrebbe potuto almeno accennarmi qualcosa prima di piombare sotto casa mia e riempirmi le orecchie con il suo monologo sfiancante!
Cosa si fa in questi momenti? Avrei dovuto gettargli le braccia al collo,baciarlo e gridare che lo amavo,ma non lo feci. Infondo, ero pur sembre la dea Bastet e dovevo in ogni caso farmi valere dopo quel supplizio terribile che mi aveva inflitto. Così restai zitta, probabilmente si aspettava con ansia una risposta, se non altro un consenso, magari tacito, della mia gioia di essere diventata la sua fidanzata dopo un anno di frequentazione che era stato piu’ simile ad un sudato travaglio in sala parto.
Avrei desiderato contenere la mia gioia che stava scoppiettando sotto la pelle calma, per la soddisfazione di regalargli almeno per un istante un tremendo momento di dubbio.
Eppure non riuscii a non squarciare le membrane della mia natura ai suoi occhi azzurri. Piansi,ma non come ero abituata a fare. Un pianto diverso da tutti quelli che mi avevano rigato le guance fino ad allora. Sentivo lo stomaco svuotarsi di tutte quelle cose che avevano pesato sulla mia esistenza,tutte le cose che avevano otturato le vie di liberazione dal dolore alle quali non ero riuscita ad accedere. Un pianto sereno,fluido e costante,che unito al silenzio non sembrava essere gradito da Marco, il quale accennava a gesti di impazienza.
Non riuscivo a parlare, anche se avrei dovuto dirgli che era tutto ok, ma forse non avevo voglia di parlare. Mi sentì improvvisamente stanca. Avevo lottato e fatto la guerra contro di lui, contro il mondo, contro me stessa fino a quel momento e ora ne avevo abbastanza di portare avanti un’inutile guerriglia. Come un corridore che raggiunge il suo ambito traguardo e non puo’ far altro che riprendere fiato e godersi quel momento di beata vittoria, rotolandosi a terra.
Poi,una volta che il pianto fosse passato,mi avvicinai a lui.Poggiai la testa sulla sua spalla,bagnandogli il collo con le lacrime.Seguirono dei momenti dolci,dei sussurri di cose che mi facevano piangere ancora di piu’,ma per la gioia. Un momento che mai prima d’ora avevo ricevuto,un regalo inaspettato, il momento perfetto in cui niente avrebbe potuto rompere l’etere brillante che ci circondava con i suoi mille bagliori notturni.
Improvvisamente le luci natalizie erano diventate deliziose, ricolme di gioia frizzantina che scintillava ora qui ora là. Il futuro era un enorme mistero, una trama tutta ancora da scoprire,un filo che avremmo portato insieme.Non c’erano certezze,non c’erano mai state, ma il fatto che lui fosse vicino a me era molto piu’ grande di una certezza. Quel calore inaspettato di un bacio mi sorprese le labbra. Silenzioso e onesto, dall’inizio alla fine.