Ci sono opere, nella storia della letteratura, che segnano una svolta. Opere che aprono nuovi mondi, che spalancano porte rimaste serrate, che si piazzano di forza tra i “classici”, senza neanche aspettare che sia il Tempo a decretarli tali. Non abbiamo certo remore nell’affermare che “La coscienza di Zeno” rientra tra queste opere.
È il 1923. Aron Hector Schmitz, in arte Italo Svevo, triestino di famiglia ebrea del secondo ‘800, si era già presentato al grande pubblico con Una vita e Senilità; ma è con La coscienza di Zeno che arriva la definitiva consacrazione. Un romanzo innovativo, sotto diversi punti di vista. Innanzitutto, è la prima opera di stampo psicoanalitico della cultura letteraria italiana. Le tracce di Sigmund Freud, artefice della trasformazione della psicoanalisi in scienza vera e propria, sono evidentissime. E questa è certamente una delle cause, se non di un immediato insuccesso, certamente di una palese freddezza, da parte del pubblico e della critica, all’uscita del romanzo. La verità è che Italo Svevo aveva avuto il coraggio di affrontare una tematica nuova, che usciva fuori dai confini della cultura positivista trionfante in Italia. Non è certo un caso che i temi della psicoanalisi, dell’interiorità e della relativizzazione dei paramentri spazio-temporali, siano stati i cavalli di battaglia di un uomo nato a Trieste, una città proiettata già geograficamente verso l’Europa. Italo Svevo guarda in alto e più lontano, incurante del provincialismo italiano, ponendo all’attenzione del grande pubblico quelle tematiche che stavano diventando europee, figlie di correnti filosofiche nuove, che avevano spostato il fulcro dal mondo esterno a quello interno. Sono, questi, anche gli anni de L’Ulisse di Joice e de La montagna incantata di Thomas Mann.
Zeno Cosini, il protagonista del romanzo, ricalca solo in parte Alfonso Nitti ed Emilio Brentani, protagonisti, rispettivamente, di Una vita e Senilità. L’inettitudine esistenziale certamente li accomuna, ma Zeno sembra aver raggiunto una maturità sconosciuta ai suoi predecessori. Soprattutto, Zeno è fortemente auto-ironico. Con ironia affronta la cura psicoanalitica cui lo sottopone il dottor S., che infine abbandona; con ironia e con distacco vive tutte le sue esperienze e i rapporti, ambigui, certamente tormentati, con le persone che gli stanno intorno. E ironico è certamente lo stesso autore, che non giudica il protagonista del suo romanzo, ma assume il suo medesimo punto di vista, facendo raccontare tutto a lui in prima persona.
La malattia come strumento di conoscenza: Italo Svevo lancia un messaggio chiaro. Il confine labile tra sanità e malattia, tema di straordinario fascino, trova con questo romanzo la sua iniziazione e, nello stesso tempo, la sua massima consacrazione. Zeno sa di essere malato e considera gli altri “sani”, ma questi ultimi, proprio dal momento che si ritengono “normali”, rimangono fermi, immobili, cristallizzati nelle loro convenzioni piccolo-borghesi. Lui, invece, il malato, è più cosciente degli altri ed è dinamico, proiettato verso nuovi orizzonti; più vicino, in definitva, alla “verità” (se mai ce ne fosse una).
La malattia – diceva Friedrich Nietzsche – è un potente stimolante.
La malattia di Zeno è la nevrosi. Quella nevrosi che si riconosce innanzitutto nell’impossibilità di liberarsi dal vizio del fumo e nel continuo fallimento dei propositi di fumare l’ultima sigaretta, ma non solo. È la nevrosi di una cultura, di una civiltà, dell’uomo del Novecento. Tutto il mondo può considerarsi “malato”. La chiusura del romanzo, a questo proposito, è catastrofica ma risolutiva.
Ci sarà un esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie
Chissà…