America, anni settanta, mondo borghese, cinque giovanni donne, le sorelle Lisbon.
Jeffrey Eugenides mescola questi elementi nel suo romanzo “Le vergini suicide” pubblicato nel 1993; è uno scrittore giovane, al tempo del suo scritto poco più che trentenne, quello che si misura con una tematica che insieme affascina e lascia turbati: il suicidio.
In queste pagine a darsi la morte volontaria sono Cecilia, Mary, Therese, Bonnie e Lux, tutte adolescenti, segregate nelle mura di una casa borghese dove sovrasta impetuosa la figura della madre, una donna bigotta che soffoca le fanciulle, il cui grido silenzioso esplode tutt’insieme in una morte collettiva.
Eugenides è abile nel dare delle descrizioni dettagliate degli interni, dell’atmosfera, del marcato sistema familiare delle ragazze, della mentalità del tempo; il tutto, svelando sin dall’inizio la morte, alla quale una ad una va incontro quasi come se fossero tessere del domino; tutto questo però non sottrae al romanzo tensione ed emozione che si riversano sullo scoprire il come e il perchè di tali gesti estremi;
Il lettore è accompagnato dalla narrazione collettiva di giovani adolescenti del posto, affascinati dalle Lisbon e dall’inquietudine che le apparteneva: non c’è un nome preciso, chi racconta è vago, impersonale ma meticoloso nel trovare da ciò che resta della vita delle ragazze, la ragione della loro morte.
per la maggior parte della gente il suicidio è come la roulette russa; c’è una sola pallottola nel tamburo. Invece la pistola delle sorelle Lisbon era carica: una pallottola per l’oppressione dell’ambiente familiare; una per l’inquietudine legata al contesto storico; una per l’impeto del momento; dare un nome alle altre due pallottole è impossibile, ma ciò non significa che non ci fossero
Se per il filosofo Kant il suicidio è l’inizio, l’azione completa, queste eroine americane sono l’emblema del completamento della vita, della scelta volontaria, della fine del cerchio; certo parlare di un completamento di vita a chi di vita ne ha vissuta davvero poca è agghiacciante: le protagoniste sembrano essere estranee alla comune visione di realtà, fantasmi sospesi tra il presente e l’assoluto, ospiti di un mondo che non le ha mai appartenute del tutto e dal quale rifuggono come prigionieri evasi; la loro morte, ognuna a suo modo, appare come la realizzazione di una sorta di patto di sangue fatto attraverso taciti sguardi, quasi come se riuscissero a trasmettersi pensieri senza che il mondo, estraneo al loro legame, ne prenda coscienza.
Saggio, mai banale, Eugenides non sporca la sua penna di riflessioni perbeniste, non si incatena in colpi di scena e altalenanti verità per tenere l’occhio del lettore appiccicato al foglio: serve sulla tavola tutte le pietanze insieme, la conclusione, la storia…sta in chi legge, attraverso il racconto di chi guarda affascinato e bramoso di notizie, capire cosa partendo da Cecilia, è scattata nelle menti delle Lisbon, quale desiderio di fermarsi lì, a quel presente oppressivo, a quella realtà ovattata e tremendamente soffocante e da dove hanno poi trovato il coraggio e la forza di salutare la loro adolescenza e di abbracciare la morte.