L’avventura d’un povero cristiano è l’ultimo libro che Ignazio Silone ci ha lasciato. L’anno di uscita è il 1968.
Nato nel 1900 e morto nel 1978, Ignazio Silone, pseudonimo di Secondino Tranquilli, è stato una grande personalità del panorama letterario italiano del XX secolo: una vita lunga la sua, che ha attraversato due guerre mondiali, la dittatura fascista, la rinascita post-bellica e la rivoluzione studentesca del ’68. Da sempre vicino al partito comunista prima e socialista poi (in seguito alla svolta politica staliniana), Ignazio Silone è stato un grande attivista politico ed ha caricato gran parte delle sue opere (certamente le più famose) di questa componente.
Accade anche ne L’avventura d’un povero cristiano. Il messaggio siloniano qui sceglie la forma teatrale per attingere definitiva efficacia: tutto il testo è, infatti, composto da soli dialoghi, adatti a portare sulla scena i sentimenti, le coscienze e i princìpi. È un teatro di idee, proiettato nella profondità della storia medioevale, ma scopertamente allusivo al nostro tempo e al dramma dell’uomo che sceglie la libertà e la norma della propria coscienza contro il potere.
Il “povero cristiano” del titolo è nientemeno che Pietro Angelerio del Morrone, il papa del gran rifiuto dantesco, salito al trono con il nome di Celestino V. L’unico pontefice “dimissionario” della storia, da San Pietro a Benedetto XVI: Celestino V tenne il soglio pontificio dal 5 luglio al 13 dicembre 1294, decidendo poi di ritirarsi alla sua vita precedente, ispirata ai valori della povertà evangelica e francescana. Una povertà che, evidentemente, non era ben vista da una Chiesa che vedeva crescere giorno dopo giorno il suo potere temporale. Non è un caso che il successore fu Bonifacio VIII, campione intransigente nel prolungare la funzione politica della Chiesa. Silone addita in Celestino la virtù di chi antepone la coscienza al potere politico e si eleva perciò sulla corruzione del suo tempo, che invade sia la sfera civile che quella ecclesiastica. Fuori, dunque, dai fatti storici, la sua figura assurge a simbolo di rinuncia al potere politico e alla sua trama di peccato, in favore dell’autonomia e della purezza della coscienza. È un messaggio, quello di Ignazio Silone, attuale nel Medioevo, nel 1968 ed oggi. Anche se certamente la cornice storica e politica dell’opera è quella che ha costruito il suo autore al momento della composizione: al di là del richiamo alla purezza evangelica nella gerarchia ecclesiastica, fortemente sentita, Silone fa riferimento al socialismo, un socialismo che intenda l’economia al servizio dell’uomo, e non dello Stato o d’una qualsiasi politica di potenza.
L’autore sembra quasi perdersi tra le lande di quell’Abruzzo selvaggiamente cristiano in cui si trovava Pietro Angelerio del Morrone quando fu chiamato sulla cattedra di Pietro, e in cui ritornò dopo un’esperienza assolutamente negativa, che poco o nulla aveva a che fare con un uomo che aveva scelto Cristo prima della Chiesa. È tra quelle montagne abruzzesi che termina il dramma. È come se Silone dicesse, in pieno ’68 e dopo la delusione marxista (ma il discorso è assolutamente attuale), che occorre rifarsi a queste riserve per tentare di salvarsi. E così l’immersione nell’antica vicenda di un papa rinunciatario ha il sapore di un’ indagine sul presente, in un momento in cui l’ individuo sembra schiavo di un’alienazione.
Il realismo, però, ci mette poco a mutare in pessimismo. Papa Celestino siamo tanti di noi ed è lo scrittore stesso, ma Bonifacio è il volto di una forza contro la quale l’esito della lotta è catastrofico.