“Nunc et in hora mortis nostrae. Amen.”
Comincia così Il Gattopardo, il capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. All’insegna della tradizione, della religione e della morte, secondo un filo conduttore presente dall’inizio alla fine del libro. È stato un vero e proprio “caso” letterario quello che si è scatenato all’indomani della pubblicazione dell’opera, avvenuta nel 1958, un anno dopo la morte del suo autore. Il libro ebbe uno straordinario successo di pubblico (ricevette, tra l’altro, il premio Strega nel 1959), ma suscitò un acceso dibattito tra chi lo considerò subito uno dei capolavori della letteratura italiana e chi, invece, lo vide come un prodotto fuori stagione, troppo provinciale da un lato e reazionario dall’altro. Nel 1963 Luchino Visconti ne fece uno dei film che ha fatto la storia del cinema italiano. Ma perché tutto questo rumore attorno all’unica opera di un certo rilievo di un principe siciliano nato agli sgoccioli del XIX secolo?
Il romanzo, storico e autobiografico insieme, mette in scena gli ultimi anni del principe Fabrizio di Salina (una figura modellata in parte su quella di un bisnonno dell’autore), sullo sfondo di una Sicilia che vive il delicato passaggio dal regime borbonico allo Stato italiano unitario. Il protagonista indugia nel seguire, passo dopo passo, la fine di quel mondo, del suo mondo, con uno stato d’animo del tutto ambiguo; un particolare mix di angoscia, preoccupazione e malinconia, condita da un’attrazione quasi morbosa per la morte (e splendida risulta la personificazione in occasione della fine del principe: Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo […] Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari).
A ragione il significato de Il Gattopardo si è spesso condensato in quella celebre sentenza di Tancredi, il nipote del principe di Salina, il futuro della classe dirigente isolana: Tutto deve cambiare per non cambiare nulla. Le trasformazioni avvenute in Sicilia, nel corso della sua millenaria storia, hanno adattato il suo popolo ai numerosi invasori, senza, però, che questi abbiano mai realmente intaccato il carattere stesso del siciliano, il suo innato orgoglio, la sua anima. Anche questa volta la Storia, fatta di corsi e ricorsi, ha deciso di mettere a dura prova la Sicilia e i suoi abitanti. Ma è necessario assecondare la sua forza impetuosa per conservare i privilegi nobiliari di antica data. Ogni adattamento al nuovo risulta così incoerente. Cambiano i governi e gli invasori, ma non si modificano le gerarchie che appartengono ad una cultura consolidata, le usanze, gli usi e i costumi… si rimane, in fondo, sempre se stessi, soprattutto quando l’identità collettiva è forte.
L’opera di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è fortemente radicata in questo contesto geo-socio-politico . Eppure apre interrogativi universali, spalanca le porte dell’interazione tra le culture, i popoli e gli Stati. È possibile che certe cose non cambino mai, che lo “spirito” di un popolo rimanga immutato? Allarghiamo l’orizzonte dalla Sicilia all’Italia, in un momento in cui si parla di Europa, non più di singole nazioni, e su più livelli (monetario, politico, culturale). E, ancora, pensiamo al fenomeno dell’emigrazione e dell’immigrazione, che mischia necessariamente le carte di un popolo, rendendolo, di fatto, multietnico.
Dalla Sicilia che in pieno ‘800 passa da regno autonomo a Stato, in nome dell’unità nazionale, il nostro pensiero arriva all’Italia di oggi, in precario equilibrio tra lo slancio verso progetti continentali e resistenze locali che, soprattutto nel nostro Paese, mantengono sempre un’indubbia rilevanza, e soprattutto al Sud. Sono passati 150 anni dall’Unità d’Italia e la Storia ha fatto il suo corso… Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha dato magistralmente la sua interpretazione dei fatti, fornendo una risposta cinica alle speranze di cambiamento e miglioramento per la sua terra, attualizzando le problematiche dei suoi tempi a un secolo addietro. Oggi, le nuove sfide di innovazione su scala planetaria ci impongono una riflessione sui nostri limiti, lo spirito provinciale, la globalizzazione e la conservazione di un’identità ben precisa, con tutte le conseguenze, positive e negative, che essa comporta.