E’ morto a 73 anni l’autore di “Storie di ordinaria follia”.
Girovago, alcolista, rifiutato dalla società americana, conobbe la gloria in Europa. E divenne una leggenda.
Inizia così l’articolo datato 11 marzo 1994 e firmato da Fernanda Pivano per il Corriere della Sera.
Tipo poco raccomandabile, Bukowski. Leggendo le sue opere è facile immaginarselo come un uomo probabilmente sbronzo, con la barba incolta, che si diverte a imprecare, che spende la maggior parte del suo tempo a letto con una donna o a scommettere sui cavalli. Ma questa è solo la cornice, la tela su cui lo scrittore dipinge silenziosamente la sua visione dell’esistenza che oscilla tra il comico e il disperato, tra il sognante e il rassegnato.
Storie di ordinaria follia è una raccolta di 42 racconti. Una sorta di biografia confusa, dove si mescolano eventi e personaggi sia reali che fantastici; dal punto di vista letterario l’opera è forse un po’ deludente, non troviamo espressioni poetiche né attente analisi psicologiche. Tutti i racconti sono in prima persona e hanno al centro sempre “Charles Bukowski, detto gambe d’elefante, il fallito”. Un uomo con alle spalle due tentativi di lavorare come impiegato, dimissioni dal “posto fisso” a cinquant’anni “ per non uscire di senno del tutto” e vari divorzi. Elementi che ritornano con insistenza nei racconti.
Il titolo originale della raccolta è Erections, ejaculations, exhibitions and general tales of ordinary madness (1967).I racconti descrivono la vita dello scrittore squattrinato che trascorre le sue giornate tra corse di cavalli all’ippodromo, sbronze colossali e donne di dubbia moralità. E’ per difendere la sua profonda sensibilità artistica e umana che lo scrittore costruisce uno scudo fatto di cinismo spietato e litri e litri di alcol. Bukowski è schietto perché conosce la miseria umana, ne è cosciente e non la nasconde. Niente giri di parole, nessun abbellimento. La sua scrittura è viva, pulsa e testimonia la follia. La follia: della storia, dell’umanità, dei politici, di ogni singolo uomo…lui compreso.
Nessuna speranza di redenzione per l’umanità? Tutt’altro. Ogni personaggio aspira a riscattarsi; lui per primo ci prova attraverso la scrittura.
Due sono i racconti che mi hanno particolarmente colpita: il primo e l’ultimo. Non so se la disposizione sia casuale o meno, ma fatto sta che si parla davvero di due storie magnifiche, crudeli ma magnifiche.
Il primo racconto, La più bella donna della città, si può riassumere usando alcuni versi dello stesso autore: “Non ce la fanno i belli muoiono tra le fiamme:/sonniferi, veleno per i topi, corda, qualunque cosa…/Si strappano le braccia, si buttano dalla finestra, si cavano gli/ occhi dalle orbite, respingono l’amore/respingono l’odio respingono, respingono./Non ce la fanno i belli non resistono, sono le farfalle, sono le/ colombe, sono i passeri, non ce la fanno.”
L’ultimo, La coperta, è intriso di dolcezza e malinconia.
Improvvisamente una coperta si anima e cerca di uccidere lo scrittore. Perchè? Bukowski decide di liberarsene e la regala a un amico, Hank; anche lui però viene aggredito così spara…un foro al centro del lenzuolo.
Lo scrittore, allora , decide di riprenderla con sé sospettando che quella coperta fosse una donna che un tempo l’aveva amato e che lui aveva tradito. Difficile ammettere una colpa, ancora più difficile uccidere un amore. Ma ci prova e…
Bevvi il bicchiere di vodka d’un fiato, mi accesi una sigaretta. Quindi presi la coperta, per l’ultima volta, e mi misi a TAGLIARLA! Tagliai, tagliai, tagliai. La tagliai a brandelli, la feci a pezzettini… Gettai i pezzetti nella bacinella. Posai la bacinella vicino alla finestra. Accesi il ventilatore, che mandasse fuori il fumo. Quando la fiamma cominciò a guizzare, andai in cucina a versarmi un’altra vodka. Tornai di là. Il rogo ardeva bene, rosso e vivace. Bruciava come una qualsiasi strega di Boston, come qualsiasi Hiroshima, come qualsiasi amore, come qualsivoglia amore mai, e io non mi sentivo bene, non mi sentivo affatto bene. Bevvi d’un fiato il secondo bicchiere di vodka, senza neanche sentirne il bruciore. Andai in cucina a versarmene un’altra, portai con me il coltellaccio. Lo gettai nel lavandino. Stappai la bottiglia. Guardai di nuovo il coltello, sul lavandino. Sulla lama c’era una macchia di sangue.
Mi guardai le mani. Guardai, se mi fossi ferito. Le mani di Cristo eran mani bellissime. Guardai le mie mani. Neanche un graffio. Non un taglietto. Neppure una scalfittura. Sentii le lacrime colarmi giù per le guance, strisciare pesanti come cose insensate senza gambe. Ero pazzo. Dovevo esser pazzo sul serio.